Il pozzo di Monsignore 

Il pozzo di Monsignore – annotazione non necessaria, ma resa per aggiungere alcune informazioni forse non note alla maggioranza dei tricaricesi  – sorge nella piazzetta dell’Episcopio, che una volta era il giardino del palazzo vescovile. Presenta un parapetto dalla forma ottagonale (che fu la sede delle nostre vacanze pasquali ed estive, circa una ventina di serate fino a notte inoltrata), ai due lati due colonne con architrave con in alto, al centro, lo Stemma episcopale di P.L. Carafa  (Pier Luigi Carafa jr.), che realizzò il pozzo in occasione dell’Anno Giubilare del 1650. Alle spalle del pozzo il palazzo Vescovile.

I Carafa o Caraffa sono una nobile ed antichissima famiglia di origine napoletana, decorata dei più alti titoli e divisa in numerosi rami.  Nel XIII secolo furono nominati concessionari di una tassa sul vino, comunemente detta appunto “campione della carafa“, da cui la casata prese il nome.

Alla Diocesi di Tricarico i Carafa dettero un amministratore apostolico (Oliviero dal 24.4,1510 al 20.1. 1511, deceduto) e 4 vescovi: Diomede (17 agosto 1605 – 12 gennaio 1609, deceduto; il nominato Pierluigi I, 29.marzo 1624 – 8 gennaio 1646. Ordinato cardinale da papa Innocenzo X, si dimise, subentrandogli l’omonimo nipote, che resse la diocesi per il resto della sua vita, fino al 1672.

Segnalo, infine, l’interessante pubblicazione dl Carmela Biscaglia: «Pierluigi Carafa senir e le iscrizioni della Cattadrele di Tricarico» in “Fermenti”, che si può legggere aprendo il seguente link http://www.academia.edu/31583482/Pier_Luigi_Carafa_senior_e_le_iscrizioni_della_cattedrale_di_Tricarico.

Ora veniamo a noi. Ho compiuto ottantasette anni. Sono un vegliardo, prossimo in un tempo più o meno breve – in ogni caso contrassegnato dalla brevità – a raggiungere il capolinea. Gilberto Marselli, carissimo compagno di viaggio, ha osservato che la corsa verso il capolinea, nel tratto finale, è più veloce. È l’ironia di chi sa che il capolinea è vicino, che, nel caso di Gilberto, non esprime angoscia.

Banalmente, dal canto mio, considero che il capolinea è la stazione o fermata terminale di un servizio di trasporto, dalla quale ha inizio la corsa in senso contrario. La banalità mi colloca «fuori del recinto sacro» della filosofia, della scienza e della letteratura.

E’ evidente l’allusione alla sterminata e straordinaria Ricerca del tempo perduto di Marcel Proust. Nella sua opera, una Cattedrale letteraria, c’è la grande atmosfera classica, lo studio approfondito della passione compiuto con serenità, quasi con freddezza scientifica, col controllo di una perfetta disciplina artistica: è alla grande scuola degli scrittori del Seicento che Proust ha imparato a discendere negli abissi del cuore umano per leggervi tutti i segreti dell’amore e della gelosia. L’uomo non muore tutto insieme, muore e poco a poco, via via che i suoi ricordi, come rami ormai secchi di un albero inaridito, si staccano da lui (è il concetto fondamentale della bellissima descrizione del pomeriggio in casa della principessa di Guermantes, nella seconda parte del «Tempo ritrovato», in cui l’autore incontra dopo tanti anni quasi tutti i suoi personaggi). Questo morire provoca vitale sofferenza. Per Proust, infatti, la sofferenza è il segno della vitalità dello spirito, è la conoscenza completa del bene perduto.

Mettendomi di necessità fuori di tale recinto, immagino, utopisticamente, che in un piccolo punto fantastico dell’Universo sono ordinati tutti i fatti accaduti su questo pianeta. Come su una rete telematica senza confini, della quale occorre scoprire le chiavi d’ingresso e la grammatica e la sintassi della ricerca. Verso quel punto conviene indirizzare la propria navigazione, come se esistesse, anche se si sa che non esiste, non può esistere, perché l’onniscienza è di Dio.

Nel 1887 il re svedese Oscar II assegnò un premiodi 2.500 corone alla migliore risposta al quesito: «Il sistema solare è stabile ?». In passato erano state molte le dimostrazioni sulla stabilità del sistema solare, le quali avevano però il difetto di provare la stabilità di modelli che si avvicinavano soltanto al sistema solare. Ma non è detto che, se un sistema è stabile, lo sia anche il suo originale.

L’interrogativo posto dal re svedese ne cela molti altri. Forse un giorno la velocità della Terra diminuirà ed essa arriverà a scontrarsi con il sole. Oppure è possibile che la Terra scivoli nello spazio cosmico, fuori del sistema solare che intanto si sarà disgregato. O ancora: forse la Terra non girerà per sempre intorno al sole.

Il premio fu dato al matematico Henri Poincaré – cugino di Raymond Poincaré, il presidente francese durante la prima guerra mondiale – il quale dimostrò che in linea di principio era impossibile rispondere in maniera scientifica. Nemmeno la ricerca matematica successiva cambiò idea al riguardo e così venne fondata la teoria del caos.

Oggi sappiamo che un giorno il sole si espanderà fino a diventare talmente grande da inglobare la Terra. Fortunatamente ci vorranno ancora alcuni miliardi di anni, dandoci il tempo, che possiamo supporre sufficiente a scoprire le chiavi d’ingresso e la grammatica e la sintassi che ci sapranno portare dove è finito tutto il tempo che è passato.

Forse un tempo separato dal presente non esiste. È però accaduto che, durante una passeggiata a Princeton, Albert Einstein avesse chiesto al matematico Kurt Gödel, uno dei più grandi logici di  tutti i tempi insieme ad Aristoterle e a Gottlob Fregel, «Dove va il tempo che passa?».

La domanda di Einstein costituisce il titolo di un libro del matematico Werner Kinnebrock, divulgatore scientifico di successo e autore di diversi libri su argomenti analoghi.

Il libro si avvale della Presentazione del filosofo Remo Bodei, secondo il quale la domanda einsteniana apre la strada all’esposizione di una serie d’inattese variazioni e anomalie e che Kinnebrock si concentra sul lato scientifico delle questioni. Bodei, per farlo risaltare meglio nella sua specificità, lo mette a confronto con la grande tradizione filosofica e letteraria che l’accompagna e ne fornisce le premesse.

L’immagine del tempo dominante nel nostro senso comune (di lontana origine aristotelica, ma confermata anche da Newton) – parafrasando Bodei – è costituita da una linea retta infinita sulla quale scorre, a velocità costante, un punto indivisibile e inesteso, il presente, che avanza a velocità costante, separando in maniera irreversibile il passato, che gli sta alle spalle, dal futuro verso cui procede. Si tratta di un idea esemplarmente semplice e comoda da cui è difficile staccarci, ma Bodei si chiede se essa sia anche l’unica vera.

A me, banalmente, non pare vera. Chiunque sia transitato su questo pianeta è stato spettatore e protagonista di fatti propri, contraddicendo l’idea assolutista e universale innanzi descritta. La linea retta lungo la quale procede il tempo di ogni creatura, dunque, non è infinita, ma finita: si arresta al capolinea della morte. Lì tutto finisce? Ovvero esiste un’Oltre Tomba? E non è forse vero che Dante, nel suo divino Poema, entra e, per così dire, calpesta il terreno del tempo passato degli Spiriti che incontra?

Se si esaminano i diversi elementi dell’idea sopra accennata (il punto, la linea, lo scorrere, la velocità, la divisibilità in parti uguali, la direzione) si concettualizzano stranezze, di cui Bodei esamina alcun aspetti, sui quali non mi pare necessario soffermarmi, salvo un breve accenno all’idea di Sant’Agostino, che mostra l’uguale plausibilità del tempo che non scorre. Noi, secondo questa idea, non ci spostiamo mai dal presente e viviamo il passato solo nel presente del ricordo e il futuro solo nel presente dell’attesa. Cristianamente, Agostino paragona il tempo a un elastico, che si restringe e si concentra quasi in un punto solo nell’attenzione, si allarga « all’indietro » nel rammemorare  e si prolunga «in avanti» nell’attendere e nel progettare. Per questo il senso del passato si può modificare: quel che è accaduto non può certo essere cancellato, ma il suo peso può essere variato attraverso il perdono, che permette,  a chi ha commesso il male o a chi lo ha subito, di ricominciare, più leggero, una nuova vita. Ed anche il futuro, per sua natura incerto, può venire indirizzato e condizionato dalla fiducia, ad esempio, nell’assistenza e nella grazia divina alimentata dalla speranza, o dalla fede laica nel progresso.

Il poeta spagnolo Luis de Góngora y Argate (Cordova, 1561 – 1627) sostiene nel poema «Medida el tiempo por diferentes relojes», vv. 91-100:

Se voglio attraverso le stelle

sapere, tempo dove sei

vedo che con loro vai,

ma non torni con loro.

Dove imprimi le tue orme

che non trovo il tuo corso?

Ma, ahimé, m’inganno,

tu voli,  rotoli e corri:

sei tu, tempo, che resti

son io che me ne vado.

Non sarebbe, quindi, quindi il tempo che passa (e la domanda di Einstein non avrebbe senso), siamo noi che ce ne andiamo, che siamo caduchi, mortali?

Contro l’idea esposta all’inizio del tempo e dello spazio assoluti, nella teoria delle relatività einsteniana, com’è noto, il tempo è invece relativo, dipende dalla velocità con cui si sposta l’orologio. Nel linguaggio  di Kinnebrock, quanto più velocemente ci si muove, tanto più lentamente avanza il nostro «orologio da polso». In altri termini, più rapidamente mi sposto nello spazio, più adagio mi muovo nella direzione del tempo, giacché il tempo è relativo alla velocità della materia.

Peraltro, assoluto o relativo che sia, la domanda «Dove va il tempo che passa?», la quale sembra supporre che esista – ed esista realmente – un tempo passato separato dal tempo presente -, resta senza risposta.

Nel 2005 la «Junge Akademie» di Berlino ha bandito un concorso sul tema «Dove si trova il tempo». Le risposte fornite dai partecipanti sono state più di 600. Quella di una bambina di quarta elementare è stata: «il tempo si trova nelle cose che abbiamo fatto». Una signora anziana era invece convinta che il tempo rimanesse imprigionato nelle pieghe della pelle di ognuno. La domanda presuppone, e le risposte confermano che il tempo si trovi da qualche parte, che c’è un tempo passato separato dal presente.

Tornando a Tricarico, o immaginando di tornarvi, percepisco misteriosi segni della separatezza del tempo passato dal tempo presente. Ci sono luoghi che favoriscono particolarmente la percezione. Primo su tutti: il cimitero. Poi: il pozzo di Monsignore (titolo che ho deciso di dare a questo post), lo scalone di Molinari, la Fontana di Tre Cancelli.)

I primi due sono i luoghi dei nostri assembramenti e delle infinite discussioni che spaziavano su tutto lo scibile, con partenza improntata a massima serietà, dando fondo a tutta la cultura che eravamo in grado di esibire (arricchita dalla maggioranza di noi con la consultazione della mitica Enciclopedia Treccani dell’avv. De Maria), e, quindi, progressivo scivolamento nell’ironia puntata soprattutto contro Antonio Albanese, che, avendo per Vangelo «Stato e Rivoluzione» di Lenin, ci spiegava la dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione,  o contro il dandy Pierino Lucchese, figlio del segretario comunale, detto Pierino Settebottoni dall’abbottonatura delle giacche che si faceva confezionare, per l’appunto, con abbottonatura a sette bottoni, per precipitare infine, sciaguratamente, nelle più assurde della cavolate, a chi la sparava più grossa, incredibile o sciocca. La teoria della relatività di Einstein, della quale non sapevamo nulla, ci forniva il pretesto di elaborare le più assurde previsioni sul destino della Terra e dell’Universo. Ma chi ora legge  voglia comprendere che il pozzo di Monsignore era il nostro mare e la nostra montagna e che il campo di Santa Maria, dove il pomeriggio giocavamo al calcio, impegnava i nostri piedi e non le nostre teste.

Segni diversi, talvolta inquietanti, percepisco dalla Fontana di Tre Cancelli. C’è stato un tempo in cui Tricarico non era collegata con la stazione di Grassano o con Potenza. Era isolata. Talvolta ci si serviva, per andare a Potenza, o tornare, dell’autobus Potenza San Chirico Nuovo, che da Potenza percorreva la via Appia, fermava a Tre Cancelli, svoltando quindi verso Fondi e San Chirico. Chi doveva recarsi a Tricarico, scendeva a Tre Cancelli, dove ci si affrettava a celebrare il rito del ritorno, bevendo l’acqua di quella fontana. Poi bisogna pensare a come raggiungere Tricarico, sperando in un mezzo di fortuna o nel bel tempo per affrontare il lungo cammino. Tricarico sembrava negata

Le riunioni più lunghe, interminabili fino a quando le palpebre si abbassavo e sognavamo il materasso, si tenevano in particolare attorno al pozzo di Monsignore, in una piazzetta deserta, soffusa della discreta ombra della notte e protetta da un silenzio che lasciava libero campo al canto dei grilli. A tarda ora, una sagoma umana, curva, con la testa affondata nelle spalle, fendeva l’oscurità della piazzetta. Era l’ufficiale postale, don Michele Lauria, detto don Michele La Posta, che per la seconda volta nella giornata compiva il percorso Posta – Casa, che altre due volte, nelle stesse giornate, aveva compiuto in senso inverso. Altri percorsi non hanno calpestato, nel corso della sua vita,  i piedi di don Michele. Assistevamo in silenzio al passaggio, sussurrando un timido «buonasera», che non riceveva risposta, e restavamo in silenzio fin quando l’ombra di don Michele non fosse sparita.

Esperienze analoghe alle nostre dovrebbe aver fatto Renzo Arbore, suggerendogli la fantastica avventura della canzone «Il materasso».

Mia moglie non ama tornare a Tricarico, perché trova cambiamenti che non riconosce e non accetta (brutti cambiamenti, riconosco). Ma la rinuncia del ritorno è un prezzo troppo grande, che pago con grande sofferenza. Il mio recente ritorno, in occasione del conferimento di onorificenze a Gilberto Marselli e a Giovanni De Maria, è stato molto felice. Lo è stato, invero, anche per mia moglie. I brutti cambiamenti non ho potuto non vederli, ma li ho ignorati e ho rivisto nei figli gli amici che ci hanno lasciato.

4 Responses to Il pozzo di Monsignore

  1. Gilberto Marselli ha detto:

    Sono stato sempre profondamente convinto che ognuno ha il dovere di interpretare e spiegarsi tutto ciò che accade o esiste intorno a noi. E non poteva, certo, esserne esente questo storico Pozzo del Monsignore (lo apprezzati particolarmente un giorno che vi fui trattenuto da don Angelo Mazzarone, che voleva spiegarmi l’essenza di Tricarico): Ma MAI avrei potuto pensare che, come sorprendente effetto di un riposante soggiorno in terra d’Austria,avrebbe finito con essere il punto di avvio di una serie di considerazioni così dotte (dalla filosofia alla matematica, alla teologia, alla fisica, alla politica ecc.) che ci sono state offerte dall’insaziabile curiosità (ma anche malvagità, perché pone in risalto la mia immensa ignoranza !) del buon Antonio, amico di sempre. Sentivamo tutti la mancanza di Rabatana ed il nostro incedere era diventato insicuro senza quel faro prezioso. Molto modestamente, ritengo che il mio “tempo passato” è tutto in ciò che ho fatto e vissuto, in quanto ha contribuito a formarmi ed anche -perché no ?- nelle mie illusioni e speranze. Quanto, infine, al capolinea, il nostro tragitto è reso più complicato dall’inefficienza delle attuali Aziende Municipali di trasporto (specie al Sud, Roma compresa) quasi tutte sull’orlo del fallimento e, non ultimo, anche dalla pessima manutenzione delle strade che, con le loro buche, ci provocano spiacevoli sensazioni. Ma, per fortuna, non abbiamo bisogno di particolari password o PIN per poterci abbandonare a questa piacevole modalità con triplice utilità: (1) erudirci; (2) tenerci uniti ad un passato che continuerà ad avere sempre il suo valore; (3) farcio sntire felici per tanta ricchezza generosamente offertaci. Et de hoc satis !

    • Antonio Martino ha detto:

      Agostino, alla domanda su “Che cos’è il tempo’”, rispondeva: “Se nessuno me lo chiede, lo so bene. Ma se dovessi spiegarlo a chi me lo domanda, non lo saprei” (Confessioni, XI, 14). La risposta di Agostino non è molto diversa da quella data da Einstein, il quale ammise che, quando Dio creò il mondo, l’ultima sua preoccupazione fu di crearlo in maniera tale che noi lo comprendessimo.
      Allora, chi mi impedisce di immaginare che il mio passato(come il tuo e quello di ognuno) è n tempo reale, ogni millesimo di secondo del quale è sul file della mia vita e realmente conservato in una sorta di rete telematica? La riproduzione non serve a niente, ci sono già le fotografie e i video. Mi piace immaginare reale il mio passato, realmente e continuamente rivissuto . Miliardi di anni passeranno prima che il sole si espanda tanto da inglobare la Terra. Aspetto. Da vivo o da morto ne ho di tempo a disposizione. Quanto al trasporto a Tricarico, una volta giunto al capolinea, chi se ne frega del mezzo di trasporto (ma a Ferrara non ci possiamo lamentare) e delle buche della strada! Non sarà certo un problema mio, ma degli accompagnatori.
      Ridiamoci su, caro GIL. Teniamo alto il nostro livello di buonumore.

  2. Angelo Colangelo ha detto:

    Caro Antonio,
    bentornato dopo una doverosa pausa estiva e la fuga dal caldo torrido di Ferrara. E’ stato in realtà un breve periodo, che il sentimento agostiniano del tempo mi ha fatto sembrare molto lungo. E’ stato bello, perciò, stamane ritrovare sul tuo blog te e l’amico Gilberto: leggervi non è solo un godimento dell’anima, ma un sano e benefico nutrimento intellettuale.
    Un caro abbraccio,
    Angelo Colangelo

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