Come tetto il cielo
FILOSOFI DI STRADA E MEMORABILI CLOCHARD A PARMA E A STIGLIANO DI ANGELO COLANGELO
Ermanno è un parmigiano doc. Parmigiano fino alla punta dei capelli che non ha. Sulla sua testa, infatti, i capelli sono da molto tempo un autentico miraggio. Da alcuni anni mi dà prova eloquente della sua parmigianità nelle nostre frequenti e piacevoli chiacchierate, che da qualche mese purtroppo si sono interrotte a causa della maledetta pandemia. Da quando sono iniziate, oltre dieci anni fa, le nostre conversazioni non hanno mai avuto temi fissi o precostituiti. Si ama divagare fra sport, politica, letteratura e quisquilie varie. Lui abitualmente si compiace di sciorinare fatti e personaggi della sua città di cui si dichiara, com’è giusto che sia, orgoglioso e perdutamente innamorato. Io seguo i suoi racconti con curiosità e interesse. E, devo riconoscere, con sempre maggiore profitto, da quando l’ho obbligato a rinunciare al suo dialetto, melodioso sì come il francese, ma astruso più che l’ostrogoto. Ho dovuto far ricorso alla proverbiale ostinazione lucana e alle minacce di fare uso, a mia volta, del non meno ostico dialetto stiglianese. Alla fine ci sono riuscito. Siamo arrivati a un onorevole compromesso: quando proprio non può fare a meno di parlare parmigiano, Ermanno è obbligato ad offrirmi sempre traduzioni quasi simultanee. Sono stati, in questo modo, superati equivoci e fraintendimenti, che nel passato erano risultati talvolta esilaranti, ma non di rado anche pericolosi.
Fatta questa lunga premessa, è giunto il momento di raccontare, fra i tanti, un episodio che mi pare meritevole di essere ricordato. Una mattina, Ermanno giunse nella tabaccheria dei miei figli, luogo abituale dei nostri incontri, e salutò tradendo una certa agitazione. Non perse tempo a invitarmi a uscire, perché intendeva fare una lunga chiacchierata “disintossicante”. Sentiva un urgente bisogno di distrarsi e di scacciare il malumore, mi disse. Preoccupato, mi affrettai ad assecondarlo. Mentre, sfogandosi, mi lui metteva al corrente delle indicibili noie provocate da alcuni indifferibili lavori condominiali, passò per caso Mario, che ci salutò con squisita gentilezza e ci augurò, come era solito fare, una serena giornata e ogni sorta di bene.
Mario è un barbone, calato non si sa da dove a piantare le tende in via Colli, nelle vicinanze del passaggio al livello. Nessuno sa nulla di lui, che mantiene sempre un comportamento riservato e discreto. Comunque, in poco tempo è riuscito a farsi accettare da tutti con i suoi modi affabili. E’ diventato parte integrante del quartiere, dove si aggira come una trottola dalla mattina alla sera. Senza meta e senza una ragione precisa. O, per meglio dire, per ragioni sue che nessuno conosce. Tutto ciò che gli serve per vivere è rinchiuso gelosamente in un inseparabile zainetto, da cui estrae ogni tanto una penna, un taccuino e un pacchetto di Camel gialle.
Ermanno, che è evidentemente ancora sotto l’effetto adrenalinico delle defatiganti riunioni condominiali, riflette a voce alta e afferma con convinzione che sono loro, cioè quelli come Mario, che hanno capito il senso vero della vita. Libertari e visionari, hanno avuto il coraggio di rompere le catene delle convenzioni sociali e di vivere una vita, che, se non è proprio felice, è almeno tranquilla e sgombra da assilli fastidiosi.
«Forse hai ragione. – gli rispondo con accondiscendenza, perché non mi sembra proprio il momento e il caso di contraddirlo – Non hanno nulla e sono padroni di tutto. Sono davvero liberi, perché sono padroni di se stessi e della loro vita. Sono forse loro i veri signori del mondo».
Incoraggiato dalle mie parole, Ermanno ad un tratto, mi chiede se ho mai sentito parlare di un personaggio, che i parmigiani chiamano “al màt Sicuri”. La mia risposta negativa disegna sul suo volto un moto di forte ma momentanea delusione. Subito si riprende e accende, con una sigaretta fuori programma, un inarrestabile monologo, sciorinando una doviziosa serie di informazioni sull’eccentrico suo concittadino. Ne rimango strabiliato e convengo che solo un popolo beffardo ma dal cuore grande come quello parmigiano poteva avvolgere in un caldo abbraccio, affettuoso e solidale, un simile personaggio.
Quella mattina passò del tempo prima che il discorso torrenziale dell’Ermanno si arrestasse. Non lo avevo mai avevo visto così appassionato nelle sue narrazioni, se non quando mi parlava con competenza ed amore della pittura di Caravaggio o dei fasti della squadra di calcio del Parma nei favolosi anni Novanta. Il suo racconto infervorato mi indusse, ad un certo punto, ad una considerazione, forse ovvia e scontata, ma che non esitai comunque ad esternare.
«Non c’è in Italia, – dissi – non c’è in Italia città o paese, che non abbia avuto nel corso della sua storia personaggi popolari, eccentrici e bizzarri, che sono rimasti impressi nella memoria collettiva per la loro singolarità. Il loro ricordo si è tramandato per generazioni e, col trascorrere del tempo, la loro rappresentazione ha finito per assumere i toni della favola o della leggenda».
«È proprio vero. – mi rispose Ermanno – A Parma ce ne sono stati tanti. Ma, fra i tanti, Enzo Sicuri, meglio noto come “al màt”, il matto, occupa senz’altro il posto d’onore. Non a caso Giorgio Torelli, il grande giornalista e scrittore parmigiano, lo definì un “libertario militante, un rivoluzionario senza partito”.
Al màt Sicuri è un personaggio davvero unico. La mia città umorale e sanguigna, stramba ma umana, apparentemente cinica ma in realtà dal cuore d’oro, ha finito per amarlo. Pensa che è arrivata a dedicargli una bella scultura, realizzata dall’artista Maurizio Zaccardi e collocata nel 2004 in Piazzale della Macina, in un angolo appartato ma non nascosto del centro storico. Appena possibile, non mancare di andarla a vedere».
Si era fatto tardi ed Ermanno scappò via, un po’ più rasserenato di quando era arrivato. Ma, prima di congedarsi, mi promise che mi avrebbe fatto leggere presto un opuscolo dedicato a un personaggio tanto intrigante. Fu di parola e dopo una decina di giorni, terminata la lettura, mi venne voglia di tracciare questo rapido profilo biografico del “filosofo di strada” parmigiano, attingendo all’aureo libretto prestatomi dall’amico e ad un inserto speciale, fortunosamente recuperato, che la Gazzetta di Parma gli aveva dedicato nel trentesimo anniversario della morte.
«Enzo Sicuri nacque a Parma il 30 ottobre 1907 da Ubaldo, un commerciante di cereali, e da Elvira Alfieri, stiratrice. Visse la sua infanzia, con la sua numerosa famiglia (aveva tre fratelli e due sorelle), in borgo delle Grazie.
Dopo aver frequentato la scuola di San Marcellino e alcuni corsi serali, conseguendo la licenza della settima classe elementare, incominciò a svolgere diversi lavori: fu saldatore presso la ditta Mezzi, fece l’aiutante di imbianchini e di muratori, lavorò come garzone nelle botteghe di barbieri, di mugnai e infine di fornai. In uno dei tanti giri come garzone presso il forno Zoni di via Farini, si imbatté nella persona che avrebbe dato una svolta decisiva alla sua vita, Dante Spaggiari.
Era questi un geniale incisore di metalli, titolare di un laboratorio sistemato nella canonica della chiesa di San Vitale, dove lavorò per oltre cinquant’anni. La sua bottega era molto frequentata, anche da noti rappresentanti del mondo dell’arte e della cultura cittadina, attirati dalla sua forte personalità, dal suo eloquio ricco di aforismi, dal suo atteggiamento di grande indipendenza. Benché fosse autodidatta, inoltre, lo Spaggiari era in possesso di una buona cultura e di una memoria prodigiosa, che gli consentiva di recitare con naturalezza interi canti della “Divina Commedia”.
Amava, perciò, intrattenersi con le persone parlando di letteratura, filosofia, musica, teatro. Intorno a lui pian piano si formò una sorta di cenacolo, soprattutto di giovani curiosi, sicché, celiando ma non troppo, qualcuno lo definì il Socrate di Parma. Un autentico “Maestro di libertà cittadina”.
Anche il giovane Enzo, attratto dal fascino dello Spaggiari, si fermò sempre più spesso e sempre più a lungo presso la piccola finestra, che si affacciava sul laboratorio, ad ascoltare le sue conversazioni. L’incisore filosofo finì per diventare un mito e fu grazie a quella frequentazione che Sicuri incominciò a prendere confidenza con i classici della letteratura e della filosofia. Arrivò a leggere le opere di autori che gli sarebbero col tempo divenuti familiari, come Ariosto e Tasso, Giosuè Carducci, Giacomo Leopardi, Alessandro Manzoni e perfino Benedetto Croce.
Anche in età avanzata Sicuri non esitava a riconoscere che «c’la sò f’nestren ‘na l’era la me scolä, la me universitä”. Vale a dire che la piccola finestra dell’incisore era diventata la sua scuola, la sua università. Ma non si sa per quale oscura ragione, alla fine, l’insegnamento del “Maestro” lo spinse alle estreme conseguenze ed egli, per sentirsi assolutamente libero, si decise a vivere per sempre la vita del randagio.
Comunque sia, cominciò allora la sua esistenza di clochard. Giorno dopo giorno diventò sempre più familiare ai parmigiani la figura di un ometto forte e barbuto che, vestito di stracci o di brandelli di sacchi e con in testa un cappello di carta di giornali, amava aggirarsi, instancabilmente, e immancabilmente scalzo, per le strade cittadine. Magari, di tanto in tanto, riempiva l’aria con la sua bella voce baritonale, che un tempo gli aveva consentito di far parte di una corale per ragazzi e di alimentare la sua passione di melomane.
Su una strana bici trasportava i cartoni, che raccoglieva e vendeva per racimolare qualche soldo. Con i cartoni poche altre cianfrusaglie, che costituivano tutto il suo patrimonio e il suo corredo. Per il suo sostentamento si accontentava degli avanzi, che gli erano offerti generosamente dagli osti compiacenti e che egli consumava, quasi sempre in piedi e appoggiato a qualche muro, nelle vicinanze di una trattoria.
Per qualche tempo al màt ebbe come fedele accompagnatore Gino, un barboncino orbo di un occhio. La bestiola aveva preso la strana abitudine di trascorrere solo la notte in casa con il suo padrone, ma al mattino, puntualmente, usciva di casa, rintracciava nelle vie del centro il suo amico Sicuri e non si staccava da lui per tutto il giorno. Lo seguiva nel suo incessante vagabondare quotidiano per i borghi cittadini, soprattutto nel reticolo di stradine che circondano il Duomo e il Battistero. Che Sicuri percorreva sempre a piedi nudi, come si è detto, tant’è che il poeta dialettale Giovanni Casalini, scrisse che “… coi pè al sbordacia i marciapiè”, per dire che con i piedi scalzi egli sporca i marciapiedi.
A sera, dopo il frenetico diurno girovagare, anche per il buon clochard arrivava l’ora del meritato riposo. Il sonno del giusto era consumato in grosse scatole di cartone sistemate nelle stradine del centro storico o sotto i portici di strada Farini, o in androni di antichi palazzi. Ad esempio, nel palazzo della filiale Fiat. Per questo Sicuri sosteneva di essere un «inquilino» di Arturo Balestrieri, che era in quegli anni l’ingegnere responsabile della filiale della fabbrica di automobili torinese.
Nelle notti trascorse all’addiaccio si compiaceva di avere come tetto il cielo e di interrogare la luna, come faceva il famoso pastore errante dell’Asia dell’amato Leopardi. E in quel silenzio notturno, confidava a un giornalista de La gazzetta di Parma, si sentiva il padrone della città, “la sua vera e unica amica”.
Durante gli anni del fascismo, naturalmente, il suo modo di vivere incominciò a creare problemi al Sicuri, che finì per destare la morbosa attenzione degli uomini in camicia nera. Per eccesso di zelo incominciarono a sorvegliarlo, arrivando a considerarlo addirittura un pericoloso nemico del regime. In ogni caso ne censuravano il modo di vivere, perché risultava sconveniente al pubblico decoro.
In un rapporto ufficiale, inviato al Questore il 3 febbraio 1943 e redatto da un agente della Pubblica Sicurezza, che non doveva certo essere un buon amico della grammatica italiana, fu segnalato che Sicuri era “spesso in compagnia di elementi sovversivi” e che diventava “facile preda di questi ultimi per commettere atti inconsulti”.
Egli era da ritenersi, inoltre, un disfattista, perché si esprimeva “spesso in pubblica piazza con frasi e modi contrari alla situazione militare”. Il solerte e acuto brigadiere di P. S. non tralasciò di completarne il ritratto, affermando testualmente che Sicuri “è ritenuto elemento scandaloso e sporcaccione per atti osceni verso minori … È ozioso e vagabbondo e vive ai margini dell’aiuto di caserme militari ove si reca per chiedere minestra ed altro”.
In conclusione, e non si capisce se le parole dovevano essere intese come un’attenuante o un’aggravante, nel rapporto si scriveva: “Si esclude che il medesimo sia ritenuto un esaltato o un demente ma bensì un essere sporco anche perché lo stesso vive randaggio e senza famiglia”.
Dopo poco più di due mesi, Sicuri fu di nuovo oggetto delle attenzioni delle autorità, perché risultava disertore dal 4 marzo, non essendosi presentato al Reggimento di Fanteria di Piacenza, dove era stato destinato.
Faticosamente rintracciato, partì con sei mesi di ritardo. Processato dal Tribunale di Milano, fu condannato a due mesi di cella. Ma la condanna non gli pesò più di tanto, perché la solitudine era ormai da tempo una cara inseparabile compagna, che gli permetteva di vivere, come amava, in compagnia dei suoi pensieri.
Durante il servizio militare, prestato prima Piacenza e poi ad Alessandria, molta più sofferenza, invece, gli dovette procurare il fatto di essere costretto a calzare le scarpe, alle quali da tempo egli aveva rinunciato, perché era convinto che “a stär deschälza l’è tutta salute”, stare scalzi è tutta salute.
Un disagio uguale, se non addirittura più grande, Sicuri lo provò solo negli ultimi anni della sua vita, quando fu costretto ad essere ricoverato in ospedale prima e poi alla casa di riposo “Romanini”. Qui nel 1988 ebbe fine la sua esistenza terrena e andò a vivere in quel cielo che per tanti anni era stato il suo tetto.
Si racconta che Sicuri nella casa di riposo fece fatica ad accettare le regole e a comportarsi come tutti gli altri ospiti. All’inizio rifiutò ostinatamente di indossare il pigiama, che non aveva mai usato. Solo dopo un po’ di tempo si lasciò persuadere dai medici e dagli operatori e giunse a un compromesso: acconsentì a coprirsi con un lenzuolo bianco, ma volle che gli fosse consentito di usare un cappellino di carta. Gli fu concessa anche qualche altra piccola bizzarria, come quella di aggirarsi nella stanza a torso nudo o di tenere sul letto una coperta di giornali».
Un personaggio pittoresco come al màt Sicuri fa rivivere, d’incanto, altre persone singolari, che appartennero al mitico mondo della mia infanzia e che sono rimaste sorprendentemente abbarbicate alle pareti della mia memoria.
Chivà, ad esempio. Non ne ricordo il vero nome, ma è viva l’immagine della sua figura che passava, solitaria e silenziosa, più volte al giorno davanti a casa mia.
Era un vecchio dalla corporatura tozza, gli occhi ombrosi, il viso ricoperto di una lanugine giallo-paglierina. Il colore scuro dell sue mani doveva essere molto simile a quello dei piedi del màt Sicuri. In testa portava sempre, in qualsiasi stagione, un berretto logoro e bisunto di colore indecifrabile.
Indossava immancabilmente, anche nelle ore della canicola estiva, un pastrano con una marezzatura dai colori indistinguibili ma tendenti verso il marrone scuro, privo di bottoni e incartapecorito, che lasciava intravedere un grosso spago, utile a tenere in piedi gli ampi pantaloni sporchi e sformati.
I piedi si muovevano faticosamente dentro un paio di scarpe chiodate, vecchie e slabbrate. Taciturno, Chivà si aggirava senza fretta per le vie di Stigliano e, ogni volta che la sua sagoma inconfondibile si approssimava, si assisteva immancabilmente alla fuga precipitosa di ragazzi spaventati che ne avevano, chissà perché, un grande terrore.
Altrettanta paura sprigionava Rocco Latronico, noto Patanone. La sua figura, imponente e solitaria, compariva per strada all’improvviso in qualsiasi ora del giorno. Non parlava mai con nessuno ed era sempre assorto in chissà quali misteriosi pensieri. Sembrava una persona protetta da una corazza di impenetrabile misantropia.
Di lui amava raccontare il vecchio Vincenzo Giachella, che chiamavamo zio Vincenzo Mangione. Io, che ero già da ragazzo un insaziabile divoratore di storie, lo ascoltavo estasiato. Come tanti, zio Vincenzo era emigrato, giovanissimo, nella Merica bbòna, cioè negli Stati Uniti, dove riteneva che fosse più facile fare fortuna rispetto all’Argentina e ad altri paesi sudamericani. Nel Bronx incontrò e frequentò Patanone, che da qualche anno sbarcava il lunario, facendo diversi mestieri. In quel tempo lavorava in una ditta di pompe funebri, dove riuscì a far assumere il più giovane compaesano, che era appena giunto dall’Italia.
Dopo un po’, incoraggiato proprio dal padrone della ditta, Rocco tentò la strada del successo nel mondo pericoloso, ma affascinante del pugilato. Tutti credevano ciecamente nelle sue doti di boxeur. Lo ritenevano capace di seguire le orme di Primo Carnera, il pugile friulano soprannominato “la montagna che cammina” per la sua mole gigantesca, che nel 1933 aveva vinto il titolo dei pesi massimi, diventando un idolo della boxe americana. Ma a Rocco, purtroppo, non toccò in sorte di ripetere le gesta di Carnera e presto i suoi sogni di gloria svanirono.
Allora, chissà come, finì inopinatamente nel giro della Mano Nera. Per conto della famigerata associazione malavitosa egli fu costretto ad estorcere il pizzo agli immigrati delle comunità italiane. Era troppo buono per poter esercitare un “mestiere” così infame, ma dovette accettare, ben sapendo a cosa sarebbe andato incontro, se si fosse di rifiutato di farlo.
Viveva nella paura e nello sconforto e non sapeva decidere sul da farsi. Poi un giorno, in seguito a un forte diverbio con un pezzo grosso della banda criminale, fu quasi obbligato a scappare via e si eclissò. Per un po’ rimase nascosto presso alcuni amici italiani, poi un giorno si fece coraggio e decise che era arrivato finalmente il momento di tagliare i ponti con il passato. Con l’aiuto di alcune persone fidate riuscì a partire e rientrò fortunosamente in Italia.
Tornatosene per sempre a Stigliano, Rocco finì per vivere una misera vita da randagio. Girava per le strade del paese malvestito e trasandato, chiuso in una perenne mutria e in una penosa solitudine. Se ne stava sempre per i fatti suoi e faceva di tutto per evitare qualsiasi contatto con la gente.
Ciò nonostante, capitava che ogni tanto qualcuno lo prendesse in giro e gli ricordasse impietosamente il suo fallimento americano. Ma lui, armato di grande pazienza, accettava gli sfottò anche più pesanti, senza mai reagire. Non reagiva, perché era consapevole che le sue mani facevano molto male e, perciò, voleva evitare guai a sé stesso e agli altri. Una sola volta Rocco non riuscì proprio a frenarsi e ne fece le spese Peppe Pignataro, che provò il sapore amaro delle mani del pugile mancato.
Un giorno Pignataro, che non disdegnava di alzare il gomito e viveva quotidianamente in uno stato ininterrotto di euforica ebbrezza, incontrò Rocco e, come faceva sempre quando se lo ritrovava davanti, prese a sfrucugliarlo. Gli rimproverò di essersene andato in America, pensando di fare fortuna. Come era facilmente prevedibile, aveva fallito. Del resto, poteva mai fare fortuna lui, che anche al paese era stato un buono a nulla fin da ragazzo?
Rocco per un bel po’ fece finta di non sentire le insolenze. Si armò di santa pazienza e se ne stette buono. Ma, quando per l’ennesima volta gli fu ripetuta la frase: “Ro’, sé stàtә ott’ànn a màstr e non t’àjә mbaràtә a tәrà lә spòkuә”, perse il lume della ragione. Spazientito, non ce la fece più a trattenersi e replicò, a modo suo, a chi lo accusava di aver fatto, da ragazzo, per otto anni l’apprendista ciabattino senza avere imparato neppure a tirare lo spago. Di non valere niente e di essere, insomma, un buono a nulla.
La figura imponente di Rocco si mosse e avanzò lentamente nella calura meridiana. Si avvicinò in silenzio a Pignataro che ancora cicalava, sicché non ebbe nemmeno il tempo di mostrare un piccolo moto di sorpresa o di smarrimento quando se lo ritrovò di fronte. Insomma, non poté dire né “oh”, né “ahi”, perché, appena fu a distanza di tiro, Patanone gli sferrò d’improvviso un “fait” micidiale.
Peppe, preso alla sprovvista e già malfermo sulle gambe a causa della sbronza, sembrava essere stato improvvisamente colpito dalla mazza di ferro di mastro Vincenzo Taccarrone, il maniscalco. In un istante non vide più nulla e cadde come corpo morto cade.
Le donne, che si affollavano intorno al fontanile del frascaro, rimasero pietrificate. Quando, dopo un po’, si furono riprese dallo sbigottimento, tutte insieme accorsero verso il malcapitato che se ne stava disteso per terra.
Una provvide a ripulire il volto di Peppe imbrattato di sangue. Un’altra, mettendogli sotto il naso una bottiglietta di aceto recuperata nella casa di una vicina, tentava di farlo rinvenire. Insomma, le donne, in preda allo spavento, lo soccorsero come meglio poterono e alla fine poterono levare al cielo parole di ringraziamento alla Madonna. Ma ne dovette passare del tempo prima che Pignataro facesse ritorno nel mondo dei vivi.
A distanza di tanti anni, continuo a chiedermi, senza però riuscire a darmi una risposta, perché i nomi di Chivà e di Rocco erano minacciosamente evocati dalle mamme ai loro pargoli, ogni volta che si mostravano recalcitranti ad andare a letto, non volevano alzarsi per andare all’asilo o a scuola, non si lasciavano lavare e pettinare, tentavano di sfuggire al rito mensile di trangugiare il famigerato e nauseabondo olio di ricino.
Resta il fatto che tutti i bambini si acquietavano di colpo appena sentivano pronunciare i nomi di Chivà e Patanone, che, a causa delle fosche raffigurazioni materne, si erano trasformati in paurosi babau. Erano diventati veri e propri incubi, che perfidamente s’insinuavano persino nei placidi e innocenti sogni infantili.
Ora sono passati oltre sessant’anni e, seppure con grave ritardo, io mi sento di dover chiedere scusa, e lo faccio anche a nome di tanti miei coetanei, a quei due buoni diavoli innocenti, che furono dipinti per anni come gli orchi delle favole, senza che avessero fatto nulla per meritarselo.
Ma, dei personaggi singolari, entrati a far parte della memoria collettiva stiglianese, quello a me più familiare è sicuramente Antonio Ciutis. Lo conoscevo bene, perché dopo il terremoto del novembre 1980 abitò per alcuni anni in un container non lontano da casa mia.
Benché fosse un girovago, ma non un senzatetto, Antonio mi pare il più rassomigliante al màt Sicuri. Non gli rassomigliava certo per l’aspetto fisico, perché era magro e slanciato. Non per il look, perché a suo modo era attento alla forma e amava alternare nel corso della giornata vestiti sciatti e trasandati ad abiti, che indossava con pretenziosa eleganza, manco se fossero stati firmati dall’alta sartoria di Pino Mastronardi. Spiccavano in quel variegato e bizzarro abbigliamento vistosi papillon, sgargianti seppur consunte cravatte e, spesso, scarpe molto originali, che ad un esame attento lasciavano indovinare che all’origine erano state bicolori, secondo la moda di un tempo. Eppure non mancavano le affinità fra i due.
Come Sicuri a Parma, a Stigliano Ciutis era considerato un matto. O quanto meno uno stravagante. A dire il vero, egli non solo non se ne adombrava, ma sembrava assecondare, sornione, questa opinione popolare per fini suoi neppure troppo reconditi.
Aveva un buon livello d’istruzione, rivelava disordinate ma non trascurabili letture e, inoltre, era dotato di una notevole abilità manuale e di una rara intelligenza creativa. Per questo amava costruire ninnoli e manufatti vari di poca o nulla utilità, ma non privi di grazia e, a volte, addirittura incantevoli. I suoi pezzi pregiati erano dei pupi siciliani, in metallo, di varia foggia e misura. Ne costruiva a iosa e poi li trasportava su un carrello, da lui stesso costruito, per le vie del paese. Non aveva nessuna intenzione di venderli, ma gli piaceva solo metterli in mostra con una punta di comprensibile e legittimo orgoglio.
Il palcoscenico abituale di Antonio era il Corso, che percorreva instancabilmente, per ore e ore, dalla mattina a notte inoltrata. Spesso vi passeggiava, solitario, suonando un’armonica a bocca, o mettendo in funzione un mangianastri o facendo squillare una tromba, che portava sotto il braccio e gli faceva perlopiù silenziosa compagnia. Se il Corso era affollato, allora Antonio si esaltava e, mentre suonava, non mancava di accennare di tanto in tanto leggeri passi di danza, che destavano l’ammirazione di coloro che lo incrociavano. I ragazzi non mancavano di incoraggiarlo e di acclamarlo alla fine delle esibizioni ben riuscite.
Durante le sue interminabili passeggiate, però, Antonio preferiva impiegare la maggior parte del tempo dedicandosi a lunghi monologhi o imbastendo virtuali e stupefacenti dialoghi con personaggi famosi. Scienziati, scrittori, poeti, artisti di ogni epoca erano gli interlocutori, che lo tenevano impegnato in lunghe e serrate conversazioni.
Non era raro sentirlo dialogare ad alta voce e in maniera vivace e appassionata con Galileo Galilei sui moti di rivoluzione e di rotazione o su impegnative questioni astronomiche. Con Dante naturalmente amava parlare di poesia, ma di tanto in tanto non mancava di chiedergli conto del suo reale rapporto con Beatrice o con alcuni personaggi della Commedia. Con Winston Churchill discettava di alte strategie militari da mettere in campo contro quel “pazzo” di Hitler, chiamando a sostegno delle sue argomentazioni il parere del grande Napoleone. Non si esimeva, infine, dal trattare con grandi capi di Stato impegnativi temi di politica e di economia.
Alcune volte Antonio si accalorava nel sostenere le sue tesi e s’inventava animosi contraddittori ad alta, ad altissima voce; altre volte, invece, discorreva con se stesso con serena pacatezza e si soffermava di tanto in tanto ad annotare molto accuratamente alcune riflessioni su un prezioso libretto, che al momento opportuno tirava fuori da uno zainetto a spalla o da una borsa.
Animato da un forte desiderio d’indipendenza, egli era capace di sorprendere con battute inimmaginabili, che erano rivelatrici di straordinaria intelligenza, di sottile ironia e di logica stringente. I suoi torrenziali discorsi, perciò, catturavano spesso l’attenzione di molti, giovani e adulti, che lo ascoltavano stupefatti.
Di queste sue doti singolari possono far fede due episodi di cui fui testimone diretto.
Il primo si verificò in una mattina di primo ottobre, il giorno dopo la festa di Santa Teresa. Come mi capitava spesso, incontrai Antonio, prima di recarmi a scuola e lui, ammiccante, mi invitò a prendere il caffè. Era il suo modo abituale ed elegante di avanzare una richiesta, perché non amava chiedere in forma diretta ed esplicita e, ancor di più, rifuggiva dall’elemosinare.
Io, proprio a causa sua, ero reduce da una notte insonne. Aveva, infatti, suonato imperterrito la tromba fino all’alba. Acconsentii naturalmente ad offrirgli il caffè, ma prima lo rimproverai dicendogli che quella mattina non se lo sarebbe proprio meritato. Quando mi guardò con aria interrogativa, gliene spiegai le ragioni e gli raccontai che mi aveva fatto trascorrere una notte tremenda.
Alle mie rimostranze Antonio non fece una piega, anzi sembrò sinceramente rammaricato. Ma tenne a farmi conoscere, a sua volta, le ragioni che lo avevano spinto a suonare la tromba ininterrottamente e disperatamente per tutta la notte.
«Caro prof, ero fuori di me – egli spiegò – per quello che mi era accaduto ieri sera durante la festa di Santa Teresa alla Rotonda. Ero abbattuto, perché mi avevano rubato il mio nuovo mangiadischi. Tu, professo’, sai bene quanti sacrifici mi è costato acquistarlo. Quando sono tornato a casa dopo mezzanotte, ero sconvolto al punto che avrei dovuto sbattere la testa contro il muro. Oppure, oppure mi conveniva sfogare la rabbia suonando la tromba. Credimi, ci pensai bene e mi convinsi che non avevo altre alternative!».
E, dopo una breve ma sapiente pausa ad effetto, studiata con una perizia da grande attore, concluse la sua abile arringa difensiva e mi chiese di botto:
«Tu, onestamente, ora mi devi dire cosa avresti fatto al posto mio: avresti sbattuto la testa contro il muro o avresti sfogato la rabbia afferrando la tromba e mettendoti a suonare?».
Non esitai a rispondere con ingenuo candore che avrei optato per la seconda soluzione.
«Ecco, qui ti volevo, caro prof! – disse Antonio, concludendo il perfido discorso autoassolutorio – È appunto quello che io ho fatto. Non potevo fare diversamente. Credimi, non c’era nessuna alternativa. Sono proprio contento che anche tu, prof, sei d’accordo con me. È stata la scelta migliore!».
Non mi rimase che fare chapeau al suo irreprensibile ragionamento, sorretto da una stringente logica aristotelica. Non ci rimaneva che andare al bar per un caffè, che offrii molto volentieri. Anzi, invitai Antonio a fare anche colazione. Se l’era più che mai meritato.
L’altro episodio, invece, avvenne in una fredda sera d’inverno. Io ero con l’amico Leonardo Brizzo. Dopo aver passeggiato per un po’ nel corso, senza incontrare anima viva, decidemmo di rifugiarci nello storico bar “Sarubbi”, pur esso deserto, per fare magari una chiacchiera con il barista ed amico fraterno Vittorio, prima di rientrare a casa.
Parlavamo del più e del meno, quando apparve, tutto imbacuccato, Ciutis. Ci accorgemmo che stranamente, pur avendoci visti, evitava di entrare. Ma ci teneva d’occhio, senza darlo a vedere. Io e Leonardo lo facemmo notare a Vittorio, che ce ne spiegò il motivo. Proprio quella mattina lui, Vittorio, aveva fatto notare ad Antonio che la lista dei “pagherò” per sigarette e caffè era diventata troppo lunga. Era necessario, dunque, che incominciasse, se non a pensare di saldare il debito, a presentarsi al banco solo se fosse stato in grado di pagare in contanti.
Dopo la sintetica ma esauriente spiegazione Vittorio s’immerse nella visione del telegiornale al piccolo televisore che teneva di fronte. Le braccia allargate sulla macchina del caffè per riscaldarsi, si era completamente estraniato, avvolto dalle ampie e dense volute di fumo delle sue irrinunciabili Marlboro.
Passarono alcuni minuti durante i quali Ciutis non aveva smesso di tenerci d’occhio, me e Leonardo, che, chissà perché, egli chiamava l’ingegnere. Finalmente si decise a entrare nel bar dove non vi erano altri avventori e ci invitò a prendere un caffè. Inoltrata la richiesta nel modo raffinato che gli era abituale, rimase in attesa di una risposta, che sapeva bene non poter essere che immediata e affermativa.
“L’ingegnere”, però, vedendolo tutto infreddolito e immaginando che a casa difficilmente avrebbe cenato, gli propose di rinunciare al caffè e di bere, invece, un buon tè caldo, accompagnandolo magari con una pasta o una brioche. Antonio replicò che non era una cattiva idea e, preso atto del nostro invito, scandendo bene le parole, a voce alta esclamò verso il barista distratto:
«Per piacere, mi prepari un bel tè!».
Vittorio, che non aveva seguito il lungo conciliabolo, che era appena intercorso fra Antonio, me e Leonardo, senza scomporsi più di tanto, replicò con decisione:
«Ando’, t’arәcùrd ccè t’àgg détt stәmmotéjәn? Ti ricordi che cosa ti ho detto stamattina? Allora mi dici, caro, cosa ci vuole per fare il tè?».
E Antonio, prontamente, di rimando, guardando con un sorriso sardonico ora noi ora Vittorio:
«Professo’, ingegne’, ma davvero questo è un tipo curioso! Io, ho girato il mondo e ne ho visti in Italia e all’estero baristi di ogni specie … ma un barista che chiede al cliente cosa ci vuole per fare il tè, non mi è mai capitato di incontrarlo! Ma sәndәtéjәlә a kóst! Jédd jé lә bòrrést e da mé uólә sapé ccè ngә uòlә pә ffà lә tè. Ma sentitelo un po’, lui è il barista e da me vuol sapere cosa ci vuole per fare il tè. Per piacere, sbrigati e non perdiamo tempo».
Vittorio, che solo allora realizzò in un istante cosa fosse successo e che cosa volessero dire le parole dello strano cliente, scoppiò con noi in una fragorosa e irrefrenabile risata. Finalmente, ripresosi, preparò il miglior tè della sua vita. E rese così omaggio alla grande intelligenza e alla fine ironia di Antonio Ciutis.
Un personaggio straordinario e indimenticabile Antonio Ciutis! Visse l’ultimo periodo della sua vita in una casa di riposo a Matera e gli toccò, dunque, anche per tale aspetto una sorte simile a quella di Enzo Sicuri.
Certamente a Stigliano nessuno ha pensato finora, né penserà mai in futuro, di erigere in memoria di Ciutis il monumento, che la bizzarra e generosa città di Parma ha dedicato al suo amabile màt Sicuri. Ad Antonio, però, sono certo che non mancherà, finché non se ne spengerà il ricordo, la calda simpatia degli stiglianesi, che comunque gli vollero bene.
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Grazie Angelo per questi umanissimi quadretti di vita di persone per le quali mi sento di condividere simpatia e ricordi della nostra fanciullezza. Non sapevo della statua parmigiana di Sicuri, nobilissimo gesto che plaudo di una comunità in cui si sono tasferiti molti lucani, alcuni anche miei amici.
Un affettuoso augurio di serenità pur in questo particolarissimo periodo.
Mimmo
Carissimo Mimmo, Mi associo al ringraziamento a Angelo e mi permetto di richiamare la tua attenzione sull’ultimo paragrafo del suo scritto, in particolare alla parte dove Angelo scrive che gli Stiglianesi non hanno mai pensato e mai penserebbero di erigere un monumento a Ciutis. Ho pensato che gli Stiglianesi, se non fargli un monumento, potrebbero dedicargli una via, magari sostituendo qualche nome che non sta più bene. Facendo questa riflessione mi sono ricordato di un mio vecchio amico dei preistorici tempi dell’Università, di cui mi ero completamente scordato e non mi era capitato di pensare a lui da oltre mezzo secolo. Fui ospitato a casa sua, in un paese su un incantevole promontorio del Beneventano, ospitato dai suoi come solo i terroni sanno fare. Fu un soggiorno di bupn mangiare, gradevole e istruttivo. Il paese si chiama Pontelandolfo. Un abbraccio, Antonio
Ringrazio Domenico e ricambio gli auguri di ritrovare presto la serenità perduta in questo drammatico frangente e ribadisco ad Antonio quanto gli ho detto, con tono un po’ provocatorio ma ma non troppo, in una delle nostre quasi quotidiane telefonate: potessi per un giorno avere potere decisionale, non esiterei un istante a cancellare il famigerato nome di Cialdini dalla toponomastica stiglianese sostituendolo con quello ben più degno di Antonio Ciutis.
Caro Angelo, ciò che mi hai detto e ora ribadisci (non capisco perché dici “con tono un po’ provocatorio ma non troppo”) l’avevi già scritto nell’ultimo paragrafo conclusivo dei tuoi umanissimi quadretti, per i quali torno a ringraziarti, e io avevo rilevato nella mia risposta al nostro comune caro amico Mimmo. Permettimi ora di concludere dicendo che questo non è un problema personale e che i tuoi “umanissimi quadretti” – questi sì – sono una provocazione agli Stiglianesi, e io non capisco come mai non lo capiscano. Ti abbraccio con affetto, Antonio
Proprio “quadretti di vita”. Che bella definizione di queste storie appassionanti! E ognuno torna indietro nel tempo a rivedere i “matti” del proprio paese. Nel mio c’era Chiaraluna che parlava con l’orologio della chiesa…un omino che non faceva male a una mosca.