GIOVANI ALL’OMBRA DEL DUCE
di EMILIO GENTILE
Il Sole 24 Ore DOMENICA 28.02.2021
RELIGIONI POLITICHE . UN SAGGIO RIPROPONE GLI INTERVENTI DI LA PENNA E ALTRI INTELLETTUALI CHE MOSTRANO LE TORMENTATE FASI DEL PASSAGGIO DALLA FEDE FASCISTA A QUELLA COMUNISTA
Immaginiamo. 10 giugno 1940, mentre è in corso la Seconda guerra mondiale, il duce decide di trasformare la non belligeranza dell’Italia in neutralità. Oppure ha deciso l’entrata in guerra, e il 25 luglio 1943 annuncia dal balcone di Palazzo Venezia la vittoria italiana. Nell’una o nell’altra ipotesi, quale sarebbe stato l’atteggiamento degli intellettuali, giovani e non giovani, nei confronti del regime fascista, totalitario, imperialista, razzista e antisemita? Le ipotesi e la domanda appartengono ai “se quasi realistici” dei quali lo storico si avvale quando indaga su imprevisti capovolgimenti della Storia, per esempio un repentino crollo di regime e capovolgimenti di fede politica, come realmente accadde in Italia dopo la fine del fascismo.
A tale riflessione sollecita l’articolo I giovanissimi e la cultura negli ultimi anni del fascismo, pubblicato nel 1947 sulla rivista comunista «Società», dall’allora ventenne Antonio La Penna, e ora riedito da Arnaldo Marcone, storico antichista, con l’aggiunta di scritti di Antonio Gramsci, Concetto Marchesi, Luigi Russo, e un saggio dello stesso Marcone sul romanzo di Carlo Levi L’orologio, pubblicato nel 1950, come espressione della crisi dell’antifascismo all’indomani della Liberazione.
L’articolo di La Penna, divenuto uno dei maggiori latinisti italiani, è la testimonianza schietta dell’esperienza di uno dei «giovani cresciuti e formatisi nel secondo decennio fascista», in un «clima scolastico di entusiasmo e di fede», dove alcuni furono «incantati nel sogno della gloria e dell’impero», mentre altri, «specie negli ultimi anni, avvertivano il vuoto e sentivano quella vita come una facile farsa», iniziando, come La Penna, una ricerca del senso della vita e della storia nell’idealismo liberale di Benedetto Croce, nell’ermetismo, nell’esistenzialismo, travagliati da «una pena del vivere» che era «veramente, una pena religiosa, una sofferenza morale». La Penna e altri giovani approdarono al marxismo dopo la fine della guerra, nel momento «in cui credemmo, con religioso entusiasmo ad un capovolgimento delle vecchie civiltà; … in cui ci sentimmo disperati del nostro vuoto ed il comunismo ci diede una fede ed un solido contenuto morale». I comunisti, per parte loro, avevano teso la mano ai giovani disorientati «dal crollo di una fede che è ormai riconosciuta come falsa, ma che non è ancora stata sostituita in generale, da un’altra fede», come scrisse Celeste Negarville su «Rinascita» nel gennaio del 1945.
Il motivo della religiosità, come fede politica, ricorre più volte nella testimonianza di La Penna. E lo si ritrova in altre testimonianze di giovani che avevano creduto nel fascismo come religione politica palingenetica. Poi, nel 1940, venne la «guerra fascista». Gli intellettuali, giovani e non giovani, furono mobilitati per «l’interventismo della cultura», come lo definì Giuseppe Bottai il 1° giugno 1940 nella sua nuova rivista «Primato». Giustamente, nell’introduzione, Marcone scrive che gli anni tra il 1940 e il 1943 «rappresentano un periodo intricato nella storia della cultura italiana e si prestano a una duplice chiave di lettura, ovvero da una parte la ricerca di nuove vie potenzialmente destinate a condurre all’antifascismo militante, dall’altra l’affinarsi e l’aggiornarsi delle proposte culturali del fascismo per opera soprattutto di Bottai». Ma Bottai, va però precisato, era un fascista integrale, era un credente nel fascismo come religione politica, e un assertore dello Stato totalitario come fulcro della nuova civiltà imperiale, che Mussolini voleva costruire con la «guerra fascista».
E con questo, torniamo alle ipotesi e alla domanda dalle quali siamo partiti. Negli anni fra il 1940 e il 1943, si può effettivamente rintracciare fra i giovani una ricerca di vie “potenzialmente” dirette all’antifascismo militante, ma proprio l’avverbio rende legittimo domandarsi, dove sarebbe finita tale ricerca, se non ci fosse stata la disfatta in guerra e il crollo del regime mussoliniano, avvenuti senza alcun contributo da parte dell’antifascismo militante. Prendiamo ad esempio l’articolo sui giovani nel fascismo pubblicato da Luigi Russo nel 1945, e riprodotto nel libro di Marcone. Il critico letterario citava un suo articolo, pubblicato su «Primato» nel febbraio 1941, ma con qualche modifica e aggiunta. Citiamo il testo originario, indicando in corsivo le variazioni: «Oggi gli umori dei giovani sono cambiati; parlare di “patria” [Patria] con loro parrebbe troppo mediocre discorso, ricordi di quel nostro piccolo mondo moderno [nostro “piccolo mondo” del ’14] diventato, ahimé, antico. Al di sopra della patria [Patria] si viene formando una nuova religione politica, di tono e indirizzo europeo [e d’interesse sociale.] I miti dei nostri giovani hanno tutti un carattere sopranazionale, perché tutti volti consapevolmente alla creazione di un’anima e di un’unità europea. Fascismo, nazismo, comunismo, liberalsocialismo, democrazia, fedi antitetiche fra loro, sono comunque presenti alla loro fantasia, o per essere accettate o per essere combattute; in ogni modo questi sono miti che chiamano i giovani fuori dagli schemi usati, per il superamento dell’Ottocento. La guerra stessa oggi è sentita non tanto come guerra di patrie [di Patria], ma come guerra di religioni e di ideologie politiche».
Nel 1945, Russo così commentava la sua citazione, con le manipolazioni effettuate: «Era chiaro: la così detta “Patria” del duce e dei suoi accoliti era liquidata per noi. E ne segnavamo l’atto di morte, con le reticenze interlineari che tutti gli italiani del 1941 ormai erano abituati a comprendere». In realtà, l’articolo di Russo non aveva affatto il significato di un attestato di morte per la «Patria» del duce né di una «guarigione dal fascismo». Infatti, il superamento del patriottismo nazionale della Grande Guerra era il motivo dominante della «guerra rivoluzionaria fascista», che mirava al superamento degli Stati nazionali con l’avvento di un’Europa unita sotto l’egemonia imperiale del fascismo, o, per dirla con le parole dello stesso Russo del 1941, «di quella che si potrebbe chiamare in un senso tutto traslato la nuova “romanità” e la nuova “cattolicità” europea».
Quali che fossero allora le intime convinzioni antifasciste di Russo, il suo articolo, pubblicato nel pieno della «guerra fascista», era coerente con la propaganda mussoliniana per la nuova Europa totalitaria, razzista e antisemita. E l’esito della sconfitta e del crollo del regime non erano affatto scontati, allora. Infatti, ci vollero ancora due anni di guerra, altre disfatte militari italiane, i bombardamenti sulle città e lo sbarco degli alleati in Sicilia, per iniziare la «guarigione dal fascismo». E neppure dopo il 1945 fu guarigione totale.
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Sono stato indotto a pubblicare questo articolo dai ricordo di un mio scritto su questo blog, praticamente dedicato al mio amico Mimmo Langerano, Il lungo viaggio attraverso il fascismo … e quel che continua, che ho riletto e segnalo. Nella conversazione che ne è seguita ed è pubblicata in calce al suddetto scritto, confesso fuori argomento a Mimmo che il passaggio della Basilicata alla zona arancione mi aveva sconvolto. Figuratevi ora che la Basilicata da domani 1° marzo sarà rossa.
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