Ricordo di Nicola Berardi, il contadino che fu pur poeta
di Angelo Colangelo

Ricorre quest’anno l’anniversario di tre eventi significativi legati alla figura di Nicola Berardi, per alcuni anni ignorato da tutti anche nel suo paese natale e poi conosciuto e apprezzato almeno da una ristretta cerchia di persone grazie anche a un prezioso lavoro di Benito Urago, che nel 1969 per la BMG di Matera pubblicò in un agile volumetto, “Nicola Berardi contadino e poeta”, la scarna e a molti ignota raccolta di poesie preceduta da un breve ma illuminante saggio introduttivo.

Per una curiosa e felice coincidenza del poeta stiglianese quest’anno non solo si celebra il 140° anniversario della nascita, avvenuta nel 1881, e il 75° della morte, sopraggiunta sempre nel paese natale il 10 gennaio 1946, ma si ricorda anche un altro evento che, come si vedrà, assume un significato importante e un ruolo forse decisivo nella sua biografia umana e poetica. 
Giusto 80 anni fa nell’ospedale di Matera, dove era ricoverato, Berardi conobbe il sacerdote materano Marcello Morelli (Matera, 1886 – 1972), che vi svolgeva le funzioni di assistente spirituale dei malati. Padre Morelli, che aveva indossato l’abito francescano prima di diventare sacerdote secolare, fu un intellettuale e storico molto apprezzato nella sua città e, poeta egli stesso, nutrì una grande passione per la poesia in generale.
Della sua intensa attività poetica fanno fede alcune pubblicazioni risalenti ai primi anni del ‘900 e soprattutto un’opera, “Patria. Versi”, pubblicata nel 1918 da Zanichelli e ripubblicata circa un secolo dopo per i tipi di Villani con note e commento di Giovanni Caserta. I componimenti di “Patria” sono dedicati alle tragiche vicende del primo conflitto mondiale, che il sacerdote materano aveva vissuto da vicino come cappellano militare.
Non poteva, dunque, sfuggire alla vigile attenzione di Padre Morelli, mentre si aggirava premuroso tra i malati, la figura di un uomo “segaligno e asciutto, dagli occhi molto dolci, dalla anima semplice”, il quale nel suo letto d’ospedale era impegnato per la maggior parte del tempo a scrivere versi, servendosi di materiale di fortuna.

Sollecitato a spiegare le occasioni e le ragioni che lo avevano spinto a poetare, lo strano degente non si sottrasse alla richiesta e, con grande meraviglia del sacerdote, ripercorse in versi composti con facile vena il suo non breve iter poetico. Nel componimento “Perché sono poeta” Berardi dichiarava, tra l’altro, di non avere avuto altri precettori all’infuori dei maestri delle scuole elementari e poteva considerarsi, perciò, sostanzialmente un autodidatta.

Le disordinate ma numerose letture, che lo avevano avvicinato anche a poeti greci e latini attraverso preziose traduzioni, gli avevano permesso, pertanto, di conoscere i maggiori autori della storia letteraria nazionale, dal Boccaccio al Tasso, dal Marino e al Monti, fino a Foscolo, Leopardi, Manzoni e molti altri ancora. Insomma, egli non ha difficoltà ad ammettere che «… da solo venni a conoscenza / dei Grandi da cui presi la semenza».

Lo stesso Berardi non esita a definirsi correttamente contadino e poeta, che è cosa diversa dalla definizione di poeta-contadino, con la quale fu poi da altri per molto tempo appellato. A tale proposito, se ci è consentito di accostare le piccole cose alle grandi, è il caso di precisare che per il poeta stiglianese, come per Rocco Scotellaro, è improprio ricorrere all’abusata formula definitoria di poeta-contadino, quasi a significare la semplicità dei loro versi. In effetti, dalla pur limitata produzione poetica di Nicola Berardi, al pari che dalle ben più consistenti e importanti opere poetiche del Tricaricese, si riverbera lo splendore di conoscenze letterarie non banali, le quali mostrano che l’autore, seppure da autodidatta, ha ben assimilato «le forme e i ritmi e i vari stili» dei maggiori poeti, della cui lettura si è alimentato per tutta la vita.

Nei momenti più felici della sua attività poetica, cui si dedicava nella casetta di campagna sul monte Serra ereditata dal padre Giosuè, Nicola riesce comunque a imitare in maniera personale e creativa i suoi numerosi e autorevoli modelli letterari, sicché allafine può con serena consapevolezza affermare:

«E fo’ dei versi anch’io, che se non belli
e non profondi son, sono gentili.
E ben si vede in loro, poverelli,
animo e cuore e tanti effetti umili,
e quella volontà che cerca meta
e fa che un contadin sia pur poeta».

Di Nicola Berardi ci sono rimaste in tutto sedici poesie, che propongono qua e là evidenti tracce autobiografiche. Il primo componimento, composto fra il 1915 e il 1918, è il sonetto intitolato “A mia madre”. Esso fu ritrovato su una cartolina raffigurante una Madonna in lacrime e inviata alla madre dal fronte di guerra. Non è difficile sentire nella prima quartina e nelle due terzine echi leopardiani della canzone “All’Italia” e foscoliani del sonetto “A Zacinto”:

«Tu piangi sempre, o madre mia, e il pianto
dagli occhi tuoi qual fosser fonti vive
riversi ognor qual n’hai versato tanto;
ma quelle tue son lacrime votive.
Trascorri i giorni tristi per mio amore
tra i pianti, le preghiere e li sospiri:
tu la Madre rassembri del dolore
presente del suo Figlio a li martiri.
Ma il cielo a me prescrisse una tal sorte
sino dall’ora che mi partoristi.
T’acqueta ormai ché ti darai la morte;
t’acqueta ormai ed abbi in Dio la fe’;
rassegnati: d’allor che mi nutristi
per Lui, per la Patria e non per te».

Di là dal tono retorico, che si percepisce nel richiamo finale a Dio e alla Patria, scorre nei versi del sonetto un sincero e profondo sentimento di amore filiale. È la chiara testimonianza di una delicata sensibilità, che si manifesta in altri componimenti quali “La neve fiocca”, che evoca tenere atmosfere pascoliane, “Sogno”, un lungo e raffinato componimento incompiuto, che s’interrompe al verso 98 ed evoca l’apparizione in sogno della donna della sua vita prematuramente scomparsa, “Al milite ignoto”, in cui si coglie una evidente ispirazione carducciana.

Una rara sensibilità umana e poetica rivelano anche tre poesie, che furono scritte durante la degenza nel nosocomio di Matera nella primavera del 1941, vale a dire “Nell’ospedale”, “La suora dell’ospedale” e “Al Campanile di Matera”.

Nicola Berardi La suora dell’ospedale

Ma, proprio a causa della sua delicatezza d’anima e della sua grande passione per la poesia, Nicola Berardi andò incontro a spiacevoli incomprensioni anche con le persone che gli erano più vicine, a iniziare dalla moglie Rosaria Fornabaio. Quest’ultima, infatti, non riuscì mai a comprendere e mal sopportò l’attività poetica del marito, che, a suo parere, finiva per distrarlo dal lavoro dei campi e gli impediva di occuparsi della famiglia.

Nel paese, inoltre, il contadino e poeta divenne addirittura oggetto di derisione e di scherno, sicché egli pian piano, sentendosi sempre più incompreso, finì per consegnarsi a una triste solitudine e per cercare nel vino un improbabile rimedio agli affanni e ai dispiaceri della vita quotidiana.

Ne fa fede la poesia “Autodifesa”, un lungo e singolare componimento di 88 versi distribuiti in sette ottave e otto saffiche. Messo in carcere per essere stato colto in stato di ubriachezza mentre girovagava per le strade del paese, Nicola è costretto a subire l’onta di convivere per qualche tempo con chi si è macchiato di colpe ben più gravi. Ma ancora di più gli pesa il fatto di sentirsi incompreso, abbandonato e schernito. Per questo egli, chiedendo una benevola comprensione, si rivolge al Pretore con queste umili parole:


«buon uom mi creda, e non da reo mi tenga;
commiserar ne voglia il mio dolore
e non rinchiuso a lungo mi trattenga:
dia premio ad un ingegno, ad un cuor buono,
cangiando la condanna col perdono»

Pure in un frangente tanto doloroso, comunque, non rinuncia a rivendicare, senza iattanza ma con grande dignità, la sua condizione di uomo, cui la sorte ha concesso “ingegno” e “cuor d’un vate”, ma anche molti malanni e tanta infelicità.

Non si può, alla fine di questa succinta disamina, non fare menzione di altri due componimenti. Uno, privo di titolo nell’originale, fu da Urago intitolato “La Passione di Cristo”, l’altro, che chiude la raccolta, è intitolato “Bardia!”.

Nel primo caso si tratta di un elegante poemetto religioso, composto probabilmente nel 1941 su invito di don Marcello Morelli. In esso sono rievocati con grande pathos e notevole forza espressiva i momenti salienti della Passione di Gesù, ovverossia l’ascesa al Golgota, la Crocifissione e la Morte. Quasi a formare uno splendido polittico, ciascuna delle dodici ottave offre la rappresentazione plastica di una scena del drammatico evento, che con il Cristo vede protagonisti i soldati, i due ladroni, la folla dei giudei e le donne che, impietrite dal dolore, sono ferme con Maria e Giovanni ai piedi della Croce.

A rendere l’idea della struttura e del valore del componimento può essere utile proporre la scena iniziale, ritratta nella prima ottava con versi di pura e intensa liricità:

«Sul Golgota fatal Gesù, spossato,
tutto di sangue orribilmente intriso,
deforme, pesto e tutto lacerato,
da quegli sgherri sempre più deriso,
alfine giunge. Il legno smisurato
ivi deposto, volge al cielo il viso,
e poi a Lui le sacre mani tende
chiamando il Padre; poi la morte attende».

Ignota, invece, è la data di composizione di “Bardia!”, che chiude la silloge berardiana e in cui si commemora la sanguinosa battaglia avvenuta nella località della Libia fra inglesi e italiani nel corso della seconda guerra mondiale tra il 2 e il 5 gennaio del 1941. Le operazioni belliche durarono fino all’autunno dell’anno successivo, provocando tra le file dell’esercito italiano circa 1600 morti e oltre 3500 feriti.

L’esigua raccolta poetica di Nicola Berardi, composta di sedici poesie, è, dunque, appena un po’ più nutrita del ben più celebre Canzoniere di Isabella Morra, che conta, come è noto, solo dieci sonetti e tre canzoni. La sfortunata poetessa, che consumò la sua giovane vita poetando nel sordido borgo di Favale, prima di essere barbaramente assassinata dai fratelli, fu ignorata per secoli. Nulla si seppe neppure della sua opera poetica, finché questa, tramite il critico Angelo De Gubernatis, fu intercettata da Benedetto Croce, che la impose all’attenzione del mondo letterario nazionale e fece sì che Isabella fosse considerata una delle voci più rappresentative del petrarchismo cinquecentesco.

Nicola Berardi, invece, più modestamente, fu sottratto all’oblio da Padre Marcello Morelli, che, dopo l’incontro nell’ospedale di Matera, si occupò per primo delle sue poesie, scrivendone nel 1941 sulla rivista parrocchiale materana “I Santi Medici”, da lui stesso fondata ventisei anni prima.

Il contadino e poeta stiglianese dovette, perciò, accontentarsi di acquistare meritata fama solo nei ristretti confini del paese natale, che molti anni dopo la morte ebbe il merito di ripagarlo delle tante amarezze che la vita gli aveva riservato, dedicandogli una strada cittadina.

 

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