Il cigno cantò a Tricarico in un vicolo della Saracena. Accadde una nera maledetta sera di settembre o ottobre del 1943. Pochi lo udirono. Tutti presto se ne scordarono.  Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che  ignoriamo un oceano. L’ha detta il grandissimo Isaac Newton questa potente verità. È quindi vero che ogni lacrima che ci ha rattristati confluisce in un oceano infinito che ignoriamo. Oceani di lacrime: lacrime di dolore, di disperazione, di tragedie, lacrime di gioia.

Le lacrime di gioia si asciugano presto. Le lacrime di dolore restano per sempre. Il dolore è eterno.

L’oscuramento in tempo di guerra fu un incubo. Ma non dappertutto. Per esempio, lo fu a Tricarico, ma non a Napoli, dove l’incubo non erano le luci ma le bombe. L’oscuramento fu invece un incubo negli abitati dove non c’era c’era un solo sorvolo di aerei nemici o amici e si aveva voglia del piacere di veder passare un aeroplano. L’oscuramento, con la soppressione dell’illuminazione pubblica era assoluto e fatto rispettare come una isterica forma di difesa per non orientare il volo degli aerei nemici, che peraltro non sorvolavano: il più piccolo filo di luce che filtrasse dalle finestre era punito con pesanti ammende. Rocco Scotellaro così lo ricorda nella poesia Ricordi:

[…..]
D’un tratto di queste sere
nelle silenziose campagne
ponente crollerà sui fili rotti,
le nubi scenderanno alle finestre
e noi andremo in cerca di un tizzone
per ritrovarci nelle strade buie.

L’oscuramento era un incubo per stupidità burocratica, militare e umana. Stupidità umana, oltre che militare, perché un atto di stupidità militare – alla quale eravamo abituati e non ci facevamo più caso – sfociò in tragedia, che lasciò indifferente il paese, invece di incitarlo alla ribellione.

Immaginate di restare chiusi in casa dal tramonto all’alba, non potendosi avventurare nei vicoli neri come la pece quando non splendevano la luna e le stelle, e non potere nemmeno socchiudere – un attimo, appena appena un apri-chiudi – un angolino dell’imposta di una finestra per scrutare che tempo faceva. Vivevamo, ci facevano vivere come se l’esito della guerra, la vittoria finale dipendesse dalla rigorosa osservanza dell’oscuramento. Chi aveva impellente necessità di uscire rischiarava il cammino agitando a livello dei piedi un tizzone prelevato dal focolare, rischiando i rimbrotti di una guardia o di un carabiniere. Non bastava: doveva spiegare e giustificare la rischiosa uscita e sorbirsi la minaccia di una severa contravvenzione in caso di recidiva.

Il nonno della professoressa Carmela Biscaglia, non vedente, che abitava e gestiva o aveva gestito un negozio di tessuti nel corso, una sera d’estate illuminata dal faccione lucente della luna e da migliaia di stelle che brillavano nel firmamento, volendo prendere un po’ di fresco, fece clic sull’interruttore della luce, che credeva fosse accesa e invece era spenta, aprì la porta, illuminando un buon angolo della strada già illuminata dalla luna e dalle stelle, sistemò una sedia davanti alla porta e si sedette con un bel sospirone di soddisfazione: Ah….!.

In un lampo gli piombò addosso il terribile brigadiere vice comandante, che non volle sentire ragioni, spense la luce e pretese il pagamento dell’ammenda.

Non so descrivere la mia meraviglia quando mi recai a Napoli, per frequentare la prima media. A Napoli giunsi di sera. Per chilometri e chilometri la corsa del treno era rallegrata dalla visione del lungo pennacchio rosso di fuoco del Vesuvio, allora in fase attiva – un semaforo per gli aerei nemici. Giunti a Napoli, la stazione sfavillava di luci, e un tripudio di luci emanavano i tram, i cui finestrini non erano schermati e i cui pantografi sprizzavano scintille violazzurre. Incredibile a vedersi, i negozi avevano pubblicità luminose al neon, o a qualcosa di analogo, se a quel tempo il neon era da venire. Neanche alla festa della Madonna del Carmine avevo visto un tale spettacolo di luminarie: nella mia mente rimase impressa una fantastica visione, che neppure lo spettacolo delle luci di New York, goduto alcuni decenni dopo sul calare della sera dal terrazzo del WTC – una delle due torri abbattute dall’attacco terroristico dell’11 settembre – ha cancellato. Dopo alcune ore, il suono delle sirene e il fuoco della contraerei mi svegliò nel primo sonno. In fretta, assonnati, corremmo nel rifugio, dove le donne spettegolavano quando l’aria era tranquilla, per passare di botto a invocare l’intercessione di san Gennaro quando il fuoco della contraerei diventava più vivace o sembrava che una bomba fosse caduta nelle vicinanze. 

Con mio cugino uscivamo dal rifugio per goderci lo spettacolo, uno spettacolo di luci: scie dei riflettori che scrutavano il cielo alla ricerca di aerei nemici, fuochi della contraerea, che sembravano i fuochi della Madonna del Carmine.

L’isterica severità con la quale a Tricarico era fatto rispettare l’oscuramento sfociò, come una disgrazia naturale, in una tragedia fulmineamente dimenticata. La guerra si era messa male, gli Alleati avevano occupato la Sicilia e, sbarcati in Calabria, avevano occupato Reggio Calabria. Cadde il fascismo, Mussolini fu arrestato. Il nuovo capo del governo, il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, appena nominato pronunciò un discorso alla radio, che conteneva la famosa frase: «La guerra continua e l’Italia resta fedele alla parola data… chiunque turbi l’ordine pubblico sarà inesorabilmente colpito». E la punizione colpì inesorabilmente a Tricarico.

Badoglio, il giorno 26, emanò un provvedimento con il quale l’autorità militare era investita di pieni poteri relativamente all’ordine pubblico, veniva istituito il coprifuoco (divieto di uscire di casa nelle ore serali e notturne) e venivano vietate le pubbliche riunioni (era persino vietato camminare, pure di giorno, in più di due affiancati.) Una sera, c’era tanto buio che non si vedeva a un palmo dal naso, nella Saracena, una pattuglia di Carabinieri scorse un’ombra e intimò l’alt: – Alt o sparo – intimò uno dei militi. L’infelice si impaurì e fuggì, il carabiniere sparò e l’uccise. Dovette sentire un piccolo disagio: – Era talmente scuro!- disse … Dal paese il tragico evento fu vissuto come una mera disgrazia naturale, come una morte causata da un fulmine. Sono cose che succedono, si dice in questi casi.

 

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