Nel commento alla Lettera lucana di oggi 22 novembre di Andrea Di Consoli ho citato la figura di Ezio Raimondi. Come Rocco Scotellaro era figlio di un calzolaio: calzolaio senza bottega, come Raimondi precisava il mestiere del padre.
Luigi Pedrazzi, intellettuale cattolico bolognese del Gruppo del Mulino, di cui Raimondi fu uno dei fondatori, diceva di lui: «era il più povero e il più colto di noi».

Ezio Raimondi è stato filologo, saggista e critico letterario, iniziò la sua carriera di docente come maestro supplente di scuola elementare e in pochi anni giunse ad occupare la cattedra che fu di Giosuè Carducci. Uomo di straordinaria cultura, votato all’ascolto della “voce dei libri”, Raimondi è stato un’autorità morale di Bologna, circondato da generale devozione. Le sue studentesse, tutte un po’ innamorate di lui (Raimondi aveva una figura elegante, con tratti di atavica nobiltà, alto, magro, biondo e con gli occhi azzurri, sembrava un principe normanno e la sua cultura e la sua eloquenza affascinavano) lo chiamavano il libromane.

Io seppi del mestiere del padre leggendo La Repubblica, che gli dedicava il paginone di quel giorno, in cui, naturalmente, si diceva anche delle sue umili origini. (Quando morì mia madre mi parlò della morte improvvisa di sua madre. Era uscito di casa e al ritorno non la trovò più. Lo immaginavo uscire da un nobile palazzo di via Rizzoli.)
Letto il paginone, ero in vacanza, gli spedii una cartolina con questo saluto: «Mio padre misurava il piede destro / vendeva le scarpe fatte da maestro / nelle fiere piene di polvere. Cordiali saluti».
Quando ci rivedemmo a Bologna, nella riunione del gruppo di cui mi aveva chiamato a far provvisoriamente parte per assolvere a un compito particolare, mi ringraziò e parlò con profonda e impareggiabile conoscenza della poesia di Scotellaro.

 

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