NATIVITA’

Nei giorni successivi alla nascita, il Figlio di Maria fu protagonista dei riti prescritti dalla tradizione ebraica: l’imposizione del nome, la circoncisione e l’offerta di animali nel Tempio di Gerusalemme.

Nel testo greco dell’evangelista Luca sono in tutto 14 parole, compresi gli articoli e gli avverbi: «Quando furono compiuti gli otto giorni per circonciderlo, fu chiamato col suo nome Gesù» (2,21). Matteo è ancora più sbrigativo: dopo la nascita del piccolo, Giuseppe, padre legale, «chiamò il suo nome Gesù» (1,25). È questo il primo atto civico pubblico del figlio di Maria, donna ebrea, e quindi lui pure ebreo: la circoncisione e l’imposizione del nome. Abbiamo, così, pensato nel nostro Natale di presentare questo bambino ebreo piuttosto speciale nella storia dell’intera umanità, a cui era stato imposto un nome non raro, che si basava sulla radice ebraica jasha‘, «salvare», la quale genera anche i nomi Giosuè, Osea e persino Isaia.

Egli fa il suo ingresso ufficiale nella comunità d’origine attraverso il rito fondamentale d’aggregazione dell’essere circonciso (in ebraico mûl, in greco peritémein) al prepuzio e, quindi, alla sorgente della vita. Già col padre ideale degli Ebrei, Abramo, si era esplicitato il valore simbolico di questo atto, per altro praticato da altre culture e religioni come lo stesso islam, sia pure in diversa età, e persino in ambito «laico» per ragioni igieniche o mediche. Nella Genesi, invece, non si ha esitazione nell’affermare che quel gesto è segno dell’alleanza tra Israele e Dio e che dev’essere praticato all’ottavo giorno dalla nascita (17,10-12).

Come ribadirà l’apostolo Paolo, Gesù «è nato dal seme di Davide secondo la carne… e dagli Israeliti proviene Cristo secondo la carne» (Romani 1,3; 9,5). Per questo – e sarà il Concilio Vaticano II a ripeterlo – Gesù Cristo è e rimane ebreo per sempre. Le avventure piuttosto drammatiche di questo neonato, costretto subito a diventare un profugo come i suoi genitori, dopo la nascita in un ambiente misero, sono narrate nei cosiddetti «Vangeli dell’infanzia», quattro capitoli (i primi due di Matteo e di Luca) per un totale di 180 versetti, che hanno generato però una bibliografia sterminata non solo esegetica e un’incidenza strepitosa nella storia dell’arte dei secoli, scanditi cronologicamente proprio da quella modesta nascita.

Noi scegliamo ora di seguire solo la trama strettamente ebraica dei primi giorni di questo neonato. È Luca a narrarci un altro evento rituale (2,22-40). Il piccolo ha soltanto 40 giorni e i suoi genitori da Betlemme si spostano nella vicina Gerusalemme «per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo». Lo stesso evangelista rimanda esplicitamente a due testi biblici: il primo riguardante il riscatto del primogenito che era per legge consacrato e assegnato a Dio (Esodo 13,2); il secondo che determina il sacrificio animale per la riammissione piena della madre nella comunità, dopo il periodo di «impurità» sacrale connesso al parto (Levitico 12,8).

Immaginiamo, dunque, questa famigliola che entra negli spazi fastosi del tempio eretto da Erode a partire dal 19 a.C. Maria si avvia nell’atrio riservato alle donne, davanti alla cosiddetta «Porta di Nicanore», dal nome del benefattore, un giudeo della Diaspora di Alessandria d’Egitto, che l’aveva fatta edificare e ornare. Come materia sacrificale erano prescritti un agnello e una colomba; per i poveri si sospendeva l’offerta dell’agnello troppo costoso, sostituendolo con una coppia di tortore o colombe. Ed è ciò che può offrire la coppia modesta di Maria e Giuseppe. Fin qui l’atto rituale. Ma la narrazione ha una svolta con l’entrata in scena di due figure ebree piuttosto inattese, nelle quali Luca incarna simbolicamente l’attesa messianica dell’Israele fedele.

Il primo personaggio è «un uomo giusto e timorato di Dio» di nome Simeone che intona un dolce mini-salmo, divenuto famoso per il suo incipit nella versione latina di san Girolamo, Nunc dimittis, usato nella liturgia cattolica come l’inno della Compieta, la preghiera serale: «Ora puoi lasciare che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele» (2,29-32).

Il romanziere vittoriano Anthony Trollope pone sulle labbra del protagonista di The Warden (Il custode), l’ecclesiastico e violoncellista mister Harding, giunto alla fine della vita, proprio le parole di Simeone, mentre si abbandona «alla follia delle sue vecchie dita» traendo dalle corde del suo strumento «un lagno bassissimo, di breve durata, a intervalli». Il Nunc dimittis è in realtà un inno festoso di speranza compiuta, intonato mentre Simeone stringe tra le braccia il neonato Gesù.

Subito dopo, però, la voce di questo ideale profeta ebreo, cristiano ante litteram agli occhi dell’evangelista, cambia registro e si fa cupa emettendo un oracolo severo rivolto a Maria: «Ecco, egli [Gesù] è qui per la caduta e la risurrezioni di molti in Israele e come segno di contraddizione – a anche a te una spada trafiggerà l’anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori» (2,34-35). Luca in queste parole vede anticipato il destino di Cristo, «segno di contraddizione», come da adulto lo stesso Gesù dichiarerà: «Pensate che sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione!» (12,51).

A partire dal XVI secolo, il simbolo della spada che trapassa l’anima della madre diverrà la base per la statuaria mariana della Mater dolorosa con le sette spade sul petto, segno di pienezza nella sofferenza. Ma, dopo la tenebrosa profezia di Simeone, appare l’altra figura a cui accennavamo: è una tenera e serena vecchietta di 84 anni, Anna, di cui si offre anche la carta d’identità (figlia di Fanuele e della tribù settentrionale di Asher). La sua presenza costante e orante nel tempio, come accade ancor oggi a molte fedeli anziane, è simile a un sorriso, mentre «lodava Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme» (2,38).

Cala il sipario sul piccolo ebreo Gesù e Luca annota che «il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza e la grazia di Dio era su di lui» (2,40). L’evangelista seguirà questa infanzia, in attesa del bar-mitzvah, in pratica la «cresima» giudaica, segno della maggior età (12 anni allora, 13 oggi), un atto segnato da un colpo di scena inatteso, che lasciamo scoprire ai nostri lettori nei versetti 41-52 del c. 2 del Vangelo di Luca.

Eccoli:

41 I suoi genitori si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua.
42 Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa.
43 Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero.
44 Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti;
45 non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme.
46 Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava.
47 E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte.
48 Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo».
49 Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?».
50 Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro.
51 Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore.
52 E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.
Vangelo di Luca, cap. II 41-52
 

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