ANTEFATTO: Innocenzo De Sopo concluse la sua vita di emigrato come impiegato presso il comune di Tricarico e morì senza aver maturato il diritto alla pensione.

Cercando nel mio blog ricordi dei prezzi pagati da Rocco Scotellaro per il suo canto libero ho trovato un lungo racconto in cui si intrecciano alcune storie, che forse vale la pena sciogliere e raccontare singolarmente, almeno al mio amico Angelo Colangelo piaceranno.
Riporto alcune parole sritte nella storia annunciata nell’antefato e non c’entrano propriamente con i costi pagati da Rocco, ma me li hanno richiamati e in un certo modo e in una certa misura si collegano. Chi sa, può darsi che non mi porti il ricordo di questa vicenda nella tomba.

          ««  In realtà si stavano sfogando risentimenti politici antichi e recentissimi: ma questa è un’altra storia che mi fa male ricordare e mai racconterò. Sono tra i pochissimi che conoscesse quella vicenda nei dettagli e credo di essere rimasto la sola persona che ne conservi il ricordo, che porterò con me nella tomba.  »»

IL FATTO

Solo il primogenito, Peppe detto Stalin, aveva un lavoro. Il soprannome gli fu affibbiato perché era stato il secondo di Rocco Scotellaro nella fondazione del partito socialista di Tricarico e nell’intensa attività politica espletata, e gli rimase affibbiato anche quando, in occasione della scissione di Palazzo Barberini, scelse la corrente dell’on. Saragat e, sonoramente fischiato dai socialisti e dai comunisti, presentò in piazza l’on. Enzo Pignatari, che era venuto a spiegare le ragioni della scissione. A Peppe rimase sempre il nome Peppe Stalin, almeno per gli amici, tra i quali io, anche quando dette definitivamente addio alla scelta socialista e aderì alla DC.

Fu immesso a ruolo per l’insegnamento di educazione fisica presso il liceo-ginnasio Quinto Orazio Flacco di Potenza e sposò la professoressa Rosa Scaiano, che abitava al Monte, insegnante di matematica presso lo stesso istituto. Ma anche lui, come il padre, non visse a lungo. Colpito da una grave malattia, affidò l’ultima speranza a un  ricovero presso il Policlinico di Modena, che si riteneva avesse le migliori specializzazioni per la cura del suo male. Io vivevo a Ferrara e lavoravo a Bologna. Mi resi conto che la sua vita era giunta al termine e andai più volte a fargli visita. A Modena viveva mio fratello Franco, che, col suocero modenese, gli furono molto vicini. Dall’America giunse la sorella Filomena, per portare l’ultimo saluto della famiglia al fratello.

Giuseppe De Sopo ci ha lasciato, frutto di sue ricerche, interessanti, e per certi versi sorprendenti materiali per una storia economica e sociale di Tricarico nei secoli XVII-XIX. Col consenso della famiglia e la presentazione di Carmela Biscaglia l’opera è stata pubblicata presso l’editore Rocco Curto di Napoli a cura di alcuni amici per ricordare il suo impegno civile e il suo attaccamento alla terra natale.

Pancrazio e Filomena, il fratello e la sorella più anziani dopo Peppe, avevano preso il diploma di maestro di scuola e riuscivano a raggranellare qualcosa da incarichi saltuari d’insegnamento in scuole serali; prima o poi – più prima che poi – avrebbero ottenuto un incarico di ruolo. Il quarto fratello, Antonio, era aiutante in una bottega di barbiere; la vigna forniva frutta, vino e un paio di quintali di grano, pomodori e peperoni.

 Come altre famiglie che avessero avuto o avessero un familiare cittadino americano, decisero di avvalersi di una legge sull’immigrazione varata dal Congresso degli Stati Uniti e raggiunsero alla spicciolata Newark. Prima Filomena, poi la madre, quindi i fratelli e le sorelle minorenni…. Ultimo Pancrazio.

Innocenzo De Sopo non aveva maturato il diritto a pensione, ma gli eredi avevano diritto a riscuotere l’indennità di licenziamento corrispondente a tante mensilità quanti gli anni di servizio prestato dal capo famiglia. Il Comune faceva orecchi da mercanti. Ci volle del bello e del buono perché la proposta di delibera giungesse all’esame del consiglio comunale e fosse discussa. Al primo esame l’indennità fu negata, illegittimamente perché si trattava di un diritto, di cui il consiglio comunale non poteva disporre.

Ero presente tra il pubblico a quella seduta del consiglio comunale. Il sindaco e gli assessori e i consiglieri erano seduti attorno a un tavolo in una stanza del vecchio municipio, il pubblico quella sera numeroso, accalcato addosso agli amministratori, diceva la sua, secondo le simpatie o antipatie politiche di ciascuno. Il sindaco Nicola Locuoco faticava a far rispettare l’ordine. Il segretario comunale si sforzava di far comprendere quella che alcuni consiglieri ritenevano, o fingevano di ritenere la stranezza di una indennità di licenziamento a un morto. De Sopo non è stato licenziato, è morto – dicevano. Il segretario spiegava e tornava a spiegare che per licenziamento si intende una condizione che obbliga per forza a smettere di lavorare: o per previsione di legge o per disposizione dell’autorità amministrativa o giudiziaria; sempre di licenziamento si tratta. In caso di morte è come se il licenziamento lo avesse disposto il Padre Eterno. Ma il segretario non riuscì a convincere chi non voleva farsi convincere. In realtà si stavano sfogando risentimenti politici antichi e recentissimi: ma questa è un’altra storia che mi fa male ricordare e mai racconterò. Sono tra i pochissimi che conoscesse quella vicenda nei dettagli e credo di essere rimasto la sola persona che ne conservi il ricordo, che porterò con me nella tomba.

La delibera che negava l’indennità fu annullata dal prefetto e il consiglio comunale finalmente si convinse a concederla, anche perché gli amministratori cominciavano a rendersi conto che potevano essere accusati di abuso di ufficio. L’avevano sempre saputo tutti, infatti, che si trattava di un diritto e non di una liberalità rimessa al buon cuore del consiglio comunale.

La somma riscossa, col provento ricavato dalla vendita della vigna, fu utilizzata per affrontare la grande avventura dell’emigrazione di tutta la famiglia, sette persone in tutto, la madre e sei figli.

 

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