A parte i padri olimpici Carlo Levi, Manlio Rossi Doria e Rocco Mazzarone, grandissimo è il merito per la conoscenza di Rocco Scotellaro dovuto a Franco Vitelli e a Giovanni Battista Bronzini.

       Nemmeno chi ha visto una piccolissima parte delle carte di Rocco Scotellaro (scatole di cerini, risvolti di pacchetti di sigarette, foglietti di calendario, lembi di giornale, cartoline postali, buste, lettere e, finalmente, fogli di carta uso protocollo e normali fogli di carta volanti oppure ordinati e uniti in fascicoli, e quaderni e quant’altro), che Mazzarone cercò come un cane da tartufo e raccolse e ha continuato a raccogliere per tutta la sua fortunatamente lunga vita, costringendo Vitelli a spacchettare il suo MARGHERITE E ROSOLACCI per aver trovato non una o cinque, ma altre ben cinquantacinque poesie, riuscirebbe a immaginare le carte che Rocco avesse lasciato e con quale disordine le avesse lasciate. Un appuntamento dato da Rocco –  disse una volta uno dei suoi amici, uno di quegli amici che si sono meritati di riposare su una nuvola dell’Olimpo – bisognava interpretarlo con un’approssimazione in difetto o in eccesso di tre ore. Carlo Levi scrisse in una nota alla Prefazione di È FATTO GIORNO «Nelle sue carte abbiamo trovato un gran numero di altre poesie, di frammenti, di varianti  …», ma non poteva immaginare quant’altro ancora Mazzarone avrebbe trovato.

       Che fare di quel mare di carte e cartacce, che a chiunque altro, che non fosse stato Rocco Mazzarone, avrebbe fatto pensare a una discarica? Mazzarone le copiò e pensò di affidarle a Franco Vitelli, giovane studioso emergente di Pisticci, e a Giovanni Battista Bronzini, studioso di origini materane, compagno di Rocco al ginnasio di Matera, studioso già emerso in tutta la sua grande statura di etnologo. Levi fu d’accordo. Vitelli e Bronzini si tuffarono nel lavoro, Vitelli dava qualche informazione a Mazzarone sul come il suo lavoro procedesse, Bronzini taceva e seminava ansia. Passarono anni. Levi non visse tanto da poter vedere il frutto della semina sua e di Mazzarone, che ci avrebbe donato l’Oscar Mondadori del 2004, a cura di Franco Vitelli, con tutte le poesie di Scotellaro, presentato a Tricarico in occasione del Convegno per il cinquantesimo anniversario della morte di Rocco, e quel capolavoro struggente e avvincente, coltissimo e fantasioso che dà tutto quanto, e molto più di tutto quanto il titolo promette, che è L’UNIVERSO CONTADINO E L’IMMAGINARIO POETICO DI ROCCO SCOTELLARO di Giovanni Battista Bronzini, edito nel 1987. Dalla morte di Carlo Levi passarono tre anni per la pubblicazione di MARGHERITE E ROSOLACCI a cura di Franco Vitelli, sette anni per la pubblicazione del nuovo È FATTO GIORNO, sempre a cura di Vitelli, dodici per la pubblicazione dell’ Universo contadino cit. di Bronzini. A Levi toccò la sorte di Mosè, un chiaro segno biblico.

       Franco Vitelli dette alle stampe nel 1978, nella stessa collana «Lo Specchio» della Mondadori dove, nel 1954, erano state pubblicate le due edizioni di È FATTO GIORNO, una seconda raccolta di poesie intitolata MARGHERITE E ROSOLACCI.  La scelta del titolo fu molto felice, perché uguale titolo aveva una sezione di È FATTO GIORNO e le margherite e i rosolacci richiamano l’esplosione della campagna di Tricarico in primavera. Ci si aspettava che con questa nuova pubblicazione si realizzasse l’edizione completa dell’opera poetica di Rocco Scotellaro. Leggemmo invece nella Prefazione che Vitelli si era imposto alcune limitazioni.

       Alcune erano scontate. Riguardavano i canti popolari e le poesie di carattere folclorico, della cui pubblicazione si incaricava Bronzini sulla rivista «Lares». Non era, invece, affatto scontata la scelta di Vitelli di mettere da parte un certo numero di poesie, che avrebbero fatto parte di una nuova edizione di «È FATTO GIORNO» filologicamente corretta. La decisione mi deluse. Lo so, forse e senza forse ero e sono prigioniero del mio tempo.

       Quando quattro anni dopo, nel 1978, uscì l’Oscar dell’edizione «riveduta e integrata» da Vitelli di È FATTO GIORNO, e la lettura contestuale di due edizioni del poema scotellariano per eccellenza fu imbarazzante. Sembrava trattarsi dell’opera di due poeti diversi. Mi sforzai di esaminare e valutare la nuova pubblicazione sine ira et studio, ma, mi dispiace molto doverlo confessare a me stesso, mi sono formato la convinzione che l’intenzione di Vitelli  di “restituire Scotellaro a Scotellaro”, non abbia avuto successo e non abbia fatto addirittura bene all’immagine di Scotellaro. Peraltro anche in dottrina questo lavoro di Vitelli non pare che sia stato apprezzato, anzi! L’Oscar del 1978 ha un eccezionale apparato di note. Sarebbe stato auspicabile che le poesie «messe da parte» fossero state pubblicate con le Margherite e che l’apparato di note fosse stato utilizzato per una pubblicazione di formato più modesto e minor costo del primo poema scotellariano, che era diventato introvabile.

          Vitelli  ha riveduto e integrato l’edizione Levi con interventi di revisione ortografica, di revisione dei testi mediante l’aggiunta di versi (decisamente brutti) di soppressione di poesie pubblicate da Levi e di inclusione di altre. Quest’ultima è l’operazione di maggior rilievo, che pongo in evidenza mediante tavola di raffronto in PDF.

       LEGENDA.  La Tavola è divisa in due colonne. Nella colonna di sinistra sono elencate le poesie dell’edizione Levi e in quella di destra quelle dell’edizione Vitelli. Le poesie sono raggruppate elencate nelle rispettive sezioni, delle quali è indicato il numero delle poesie che compongono ciascuna. Risulta che Vitelli ha espunto dall’edizione Levi 36 poesie e ne ha incluse 27, un vero e proprio sommovimento. Le poesie espunte e quelle incluse sono evidenziate. La prima sezione, intitolata Invito nell’edizione Levi, e intitolata Saluto nell’edizione Vitelli (si noti che nell’edizione Levi manca una poesia con questo titolo). Si noti pure che la poesia  Di noi fissi dell’edizione Levi è intitolata Tra quattro pareti nell’edizione Vitelli).     

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       Ho scritto che uno degli interventi di Vitelli consiste nella revisione ortografica del testo a cura di Levi. Mi riferivo, in particolare, agli  interventi relativi alla formazione del plurale dei sostantivi femminili con desinenza –cia e -gia, dove Levi sopprime la vocale i, che, secondo la ricostruzione critica di Vitelli, Scotellaro avrebbe conservato.  Si tratta di pochi casi, che, a mio parere, Vitelli avrebbe fatto bene ad evitare e che hanno poco o nulla a che vedere con la revisione critica.

     Qualcuno sostiene che conservare la i nelle forme plurali sarebbe un errore. Ho studiato la questione e sono giunto alla conclusione che non si tratta di errore, che, peraltro, si riscontra in un paio di occasioni. Invero, la formazione del plurale dei nomi in –cia e –gia è più complessa della regoletta che ritiene errore la conservazione della vocale. Nel plurale di detti sostantivi, con accento sulla penultima sillaba (camìcia, valìgia ecc.) la i  non ha valore fonetico (ossia non corrisponde a un suono effettivamente pronunciato: lo stesso vale per il singolare) e non serve a indicare la pronuncia della consonante precedente, come avviene invece per il singolare (i grammatici dicono che non ha valore diacritico). La vocale potrebbe dunque essere eliminata senza danno. In alcuni casi potrebbe però far comodo conservarla per distinguere due omografi (le camicie che si portano sotto la giacca e il camice che porta il medico); in altri la vocale tende a sopravvivere per il prestigio della corrispondente forma latina (provincie come il latino PROVINCIAE); in altri ancora (faccie, foggie) sarebbe considerata erronea da qualsiasi insegnante (Luca Serianni, Italiano –Grammatica, Sintassi, Dubbi, Garzanti 1997, p. 561). Per mettere un po’ d’ordine, alcuni hanno proposto una norma ragionevole, che consente di orientarsi in ogni caso e di evitare forme universalmente giudicate scorrette: la i va mantenuta quando la c e la g sono precedute da vocale (acacia – acacie, ciliegia – ciligie), va eliminata quando la c e la g sono precedute da consonante (goccia – gocce, spiaggia – spiagge, e quindi anche provincia – province. (Serianni, ivi). Le forme plurali ripristinate da Vitelli, quindi, dovevano essere sicuramente evitate. Qualsiasi editore professionalmente attrezzato e culturalmente attento avrebbe evitato forme plurali scorrette, come le ha evitate Levi. Tutto qui. L’acribia di Vitelli di conservarle mostra il suo incondizionato rispetto per Scotellaro, ma nulla aggiunge, se mai toglie, alla forma poetica del testo. Tanto più che si tratta di soli quattro casi, gli ultimi due dei quali, secondo il linguista e filologo Luca Serianni, sarebbero considerati erronei da qualsiasi insegnate.

       Ecco i quattro casi: Un’amica al v. 1 «gocce» (Levi), «goccie» (Vitelli); Monelli al v. 7 «selvagge» Levi, « selvaggie» (Vitelli); Paese d’inverno al v. 1 «casucce» (Levi), «casuccie» (Vitelli); Biglietto per Torino al verso 15 «facce» (Levi), «faccie» (Vivitelli).

     Per non appesantire, sospendo e rimando al prossimo post, la pubblicazione in PDF di due prospetti, che completeranno la Tavola sopra riportata, concernenti: 1) le 27 poesie incluse nell’edizione Vitelli e mancanti nell’edizione Levi, di cui qualcuna commentata; 2) le poesie comuni alle due edizioni integrate nell’edizione Vitelli.

 

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