FRANCESCO MALGERI: Professore emerito di Storia contemporanea presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma. Studioso di storia contemporanea, della Chiesa e del movimento cattolico, tre le sue opere vanno ricordate: La guera libica (1911-1912) (Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1972); La Chiesa italiana e la guerra (1940–45) (Studium Roma 1980); La Sinistra cristiana (1937-1945) (Morcelliana Brescia 1982); Luigi Sturzo (San Paolo, Cinisello Balsamo 1993); Alcide De Gasperi. Dal fascismo alla democrazia (1943-1947) (Rubbettino Soveria Mannelli 2009): I democratici cristiani e la Costituzione, in collaborazione con N. Antonetti e U. De Siervo (Rubbettino Soveria Mannelli 2017).

La formazione culturale e politica di Emilio Colombo matura nel corso degli anni Trenta, alla luce del suo impegno di giovane esponente dell’associazionismo cattolico lucano, sotto la guida di mons. Augusto Bertazzoni, un vescovo illuminato, dotato di un grande spirito umanitario, esercitato anche a favore dei confinati politici e degli ebrei internati in Lucania.

Il giovane Colombo fu influenzato anche dal parroco della chiesa della Trinità, don Vincenzo D’ Elia, un sacerdote sturziano, che aveva fondato nel 1919 il Ppi a Potenza. D’ Elia era lo zio di don Giuseppe De Luca, con il quale Colombo avviò, sin da giovane, un rapporto destinato a divenire un sodalizio duraturo e profondo. De Luca ebbe particolare attenzione nei confronti del giovane lucano, introducendolo nel vivace e ricco clima culturale nel quale operava. Colombo ha ricordato quando, ancora studente diciannovenne, si ritrovò a pranzo, in casa di De Luca, a Roma, con personaggi quali Giovanni Papini e Piero Bargellini [1]. Grazie a De Luca entrò in rapporti di collaborazione e amicizia con Vittorino Veronese, Vittorio Cini, Raffaele Mattioli, Vittore Branca e altri. Negli anni seguenti, assieme a questi uomini Colombo si impegnò non poco per sostenere l’attività editoriale e culturale di De Luca e non a caso, divenne presidente dell’Associazione Don Giuseppe De Luca, dopo la sua morte.

Frequentando la facoltà di giurisprudenza, entrò in contatto anche con una significativa figura di studioso di ispirazione cattolico-liberale, quale fu Arturo Carlo Jemolo, con il quale discusse la sua tesi in diritto ecclesiastico, conseguendo nel 1941 la laurea ad appena ventuno anni. La carriera accademica e gli studi di diritto ecclesiastico erano tra i suoi obiettivi. Il richiamo della politica lo costrinse a mettere da parte le sue aspirazioni.

Nel 1944 il suo nome cominciò ad affermarsi sul piano nazionale, quando venne chiamato a ricoprire la carica di segretario generale della Gioventù di Azione cattolica. L’Azione cattolica fu per lui, sin da giovane, una scuola di fede, di cultura e di vita. Ricordando gli incontri, i convegni, le attività culturali e ricreative che segnarono la stagione del suo impegno associativo, Colombo ha affermato che quell’impegno era vissuto sulla base della alterità nei confronti del fascismo: «Vivemmo questa alterità dalla parte della libertà, dalla parte delle nostre organizzazioni, conla comprensione di quello che tutto ciò significava, non solo per la vita dell’organizzazione, ma per la vita del paese e per la perdita di libertà›› [2].

È in quegli anni, in seno all”Azione cattolica e alla Fuci, che allacciò rapporti con molti dei protagonistici della vicenda politica del dopoguerra. Un gruppo di giovani destinati a divenire classe dirigente, che ritrovò nella Democrazia cristiana. In quegli incontri assieme a Colombo troviamo Zaccagnini, Rumor, Taviani, Moro, Lazzati, La Pira, Andreotti, Pastore e altri.

In quei primi anni Quaranta, nei quali il paese visse il suo travaglio e il suo riscatto, Colombo si avvicinò alla politica, riconoscendo nella Democrazia cristiana il suo riferimento politico, ponendosi in linea conla visione di De Gasperi, che egli interpreta come «il punto più moderno di una sintesi tra ispirazione cristiana e laicità dell’impegno politico, sobrietà e rispetto del valore delle istituzioni, dignità e onestà nel servizio della democrazia»[3].

Colombo acquisì un ruolo di primo piano in seno a una classe dirigente del tutto nuova, che non aveva avuto esperienza nella vita politica nazionale, segnata dalla presenza del regime fascista. I giovani provenienti dall’Azione cattolica e dalla Fuci non avevano alle loro spalle una scuola di partito. Non avevano alle loro spalle né le casse rurali cattoliche, né leleghe bianche, né l’esperienza vissuta in seno alla vita amministrativa nei comuni, nelle province, nelle cooperative o nei sindacati. Avevano indubbiamente una formazione che si ispirava a una cultura politica fortemente ancorata ai modelli del magistero sociale della Chiesa, sia pure aggiornato alla luce di una visione più incisiva del ruolo dello Stato, a sostegno di una politica economica ispirata prevalentemente al valore della persona e alla tutela delle esigenze della società e del “bene comune”.

Insomma, una preparazione più di natura culturale che politica. Una formazione in gran parte estranea alla tradizione del popolarismo e del pensiero sturziano. Per questa generazione di cattolici l’esperienza politica sarebbe maturata a contatto diretto e nel confronto con i problemi che dal 1945 in poi attraversano la vita del paese, anche se, nella prima fase, sono ancora gli uomini legati all’esperienza del popolarismo ad assumere la leadership del partito. Nella Democrazia cristiana il ruolo di questa generazione fu comunque fondamentale.

Per quanto riguarda Colombo e la Basilicata va sottolineato un aspetto significativo, vale a dire il grande consenso che il cattolicesimo democratico espresso dalla Democrazia cristiana riuscì a conseguire in una regione che nel primo dopoguerra aveva visto la debolissima incidenza del popolarismo e l’assoluto predominio della presenza del vecchio notabilato liberale, rappresentato dalla figura di Francesco Saverio Nitti. Come ha avuto modo di sottolineare Giampaolo D’Andrea.

I giovani esponenti della Dc lucana [. . .] erano ben consapevoli di costruire n’alternativa dal punto di vista elettorale, non solo ai partiti della sinistra, maanche al nittismo, dal quale era necessario quindi distinguersi bene dal punto di vista politico-organizzativo, sottolineando un impegno per le riforme sociali ed economiche tale da rafforzare le radici popolari del partito e assicurargli un sicuro consenso di massa [4].

Del popolarismo e della lezione sturziana Colombo raccolse aspetti quali la laicità della politica, l’antifascismo e l’impegno e la battaglia meridionalista. Eletto deputato alla Costituente, con 21 mila voti di preferenza, ebbe a confessare che per lui l’ingresso alla Costituente fu un’«esperienza fondante» e una «grande scuola», che lo guidò a «riflettere sui lineamenti e sui contenuti di quell’architettura di principi›› che diede «una forma matura alla democrazia italiana›› [5]. Il suo impegno alla Costituente venne dedicato  in particolare alla formulazione degli articoli relativi alla proprietà privata, che aprivano la strada alla riforma agraria.

È proprio attorno a questo problema che si indirizzò l’impegno di governo di Colombo negli anni successivi. La sua esperienza di governo comincia nel maggio 1948, a solo ventotto anni, come sottosegretario all’agricoltura nel V e nel VI governo De Gasperi. Un incarico che lo vide protagonista, assieme ad Antonio Segni, nella formulazione della riforma agraria, che andava a colpire la rendita parassitaria e a incidere sugli equilibri sociali nel Sud. Si trattava di una serie di provvedimenti che testimoniavano l’attenzione nuova con la quale il governo guardava ai problemi del Mezzogiorno, al fine di mettere in moto un meccanismo di sviluppo autonomo, con l’obiettivo di fare dello Stato il motore della trasformazione strutturale e dell’espansione produttiva del Sud. Si trattava di un impegno animato anche da una intensa passione meridionalista, con l°obiettivo di coinvolgere e cointeressare i lavoratori delle campagne alle sorti della nuova democrazia repubblicana.

Il meridionalismo di Colombo si forgiò nell’esperienza vissuta a contatto con la realtà sociale del Sud, si misurò con problemi gravissimi, quali la tensione sociale che attraversò le campagne meridionali sul finire degli anni Quaranta, che ebbe il suo episodio più drammatico negli scontri e nei morti di Melissa. Fu proprio il giovane sottosegretario all’Agricoltura a confrontarsi con le forze sociali, economiche, politiche, sindacali, in una lunga trattativa durata ininterrottamente 36 ore, a Catanzaro, nel novembre del 1949, per trovare una mediazione in grado di restituire tranquillità nelle campagne calabresi.

Fu ancora Colombo che accompagno De Gasperi nella visita ai Sassi di Matera, il 23 luglio del 1950, che fu la premessa alla legge su Matera. Una legge che Colombo ha giudicato come «una delle leggi più importanti» della sua vita politica. Intervenendo al congresso di Napoli della Democrazia cristiana del 1954, chiese al partito il sostegno pieno e convinto a una politica,[6] riformista per correggere gli errori del passato e avviare un processo di rinnovamento delle vecchie strutture economico-sociali del Sud. Affermò:

La funzione della Democrazia cristiana è in primo luogo di risolvere i rapporti fra le classi popolari dell’ Italia meridionale e lo Stato, che ancora i ceti possidenti meridionali considerano espressione dei loro interessi, dando luogo ad una posizione polemica contro lo Stato che si traduce in una posizione polemica contro la Democrazia Cristiana. Il partito deve porsi come intelligente intermediario tra le classi popolari, i cedti medi e lo Stato, assorbendo e trasmettendo le antiche e nuove aspirazoni delle popolazioni meridionali.

Difese la riforma agraria dagli attacchi di coloro che la indicavano come causa del calo elettorale del partito. «La riforma agraria – affermò – non ha costruito soltanto un efficace strumento sociale a vantaggio dei braccianti o dei contadini senza terra, ma ha rappresentato e rappresenta una intelligente operazione di carattere economico, tendente a costituire un elemento di rottura nel vecchio ordine economico, sollecitando gli investimenti privati nelle campagne››.

La riforma era, per lui, «lo strumento di rottura di un vecchio equilibrio cristallizzato per intraprendere il colloquio con ceti fino ad oggi esclusi dal ciclo della vita democratica ed inserirli nel dialogo politico›› [7].

La sua attività in seno al governo proseguì con il sottosegretariato ai Lavori pubblici, per assumere poi la guida del ministero dell”Agricoltura nel 1955 con il primo governo Segni e nel 1958 del Ministero del Commercio estero nel secondo governo Fanfani, ottenendo la delega alle trattative per l’attuazione dei Trattati di Roma. Un compito che lo poneva per la prima volta di fronte ai problemi della Comunità europea, grazie alla quale acquisì, negli anni successivi, una competenza e un ruolo di grande rilievo, sino alla presidenza del Parlamento europeo nel 1976 e al premio Carlo Magno nel 1979.

Alla fine degli anni Cinquanta, si apri per Colombo la strada verso nuovi e impegnativi incarichi di governo. Sono gli anni in cui prende corpo il miracolo economico italiano e la svolta del centro-sinistra. In questi anni Colombo ricoprì, ininterrottamente, per ben sette anni dal 1963 al 1970, la carica di ministro del Tesoro nel primo governo Leone, nel primo, secondo e terzo governo Moro, nel secondo governo Leone, nel primo, secondo e terzo governo Rumor, e poi negli anni Settanta nel primo governo Andreotti, nel quinto governo Rumor, nel quarto e quinto governo Moro. Assunse la Presidenza del Consiglio dal 1970 al 1972, dovendo, tra l’altro, affrontare e risolvere la drammatica situazione determinata dalla rivolta di Reggio Calabria.

Accanto al suo ruolo di uomo di governo Colombo fu attivo e parte-cipe della dialettica politica e delle scelte del suo partito. Egli si venne a collocare in quel contesto politico rappresentato dalla corrente di Iniziativa democratica che, all’inizio degli anni Cinquanta e soprattutto dopo la morte di De Gasperi, assunse la leadership in seno alla Democrazia cristiana. Si trattava di un gruppo emergente, formato da una nuova generazione, che riuscì a prendere in mano e controllare la gran parte dell’apparato periferico del partito. Uomini come Rumor a Vicenza, Taviani a Genova, Colombo in Basilicata, Moro in Puglia, Fanfani nel1’Aretino, Elsa Conci a Trento, Gui a Padova, Zaccagnini a Ravenna, Natali a L’Aquila e così via, acquistarono peso e prestigio grazie anche alla loro capacità di controllare e gestire i meccanismi locali del partito.

La Dc era in gran parte nelle loro mani. Iniziativa democratica assumeva il ruolo di erede naturale del gruppo dirigente degasperiano. In essa venivano formandosi i leader politici destinati a guidare la Dc negli anni successivi, con l’obiettivo di costruire un partito espressione di una democrazia moderna, in grado di guidare e indirizzare lo sviluppo economico del paese e di contribuire alla costruzione di uno Stato moderno, partecipe dello sviluppo economico e industriale.

Sul piano politico sono questi gli anni in cui matura il dibattito sull’esigenza di ampliare le basi democratiche del paese, aprendo alla collaborazione con un socialismo autonomo e svincolato dal Partito comunista. Una ipotesi a cui Colombo guardò con prudenza, non nascondendo le sue riserve, ma non escludendo a priori successivi sviluppi.

Al Congresso di Trento, nel luglio 1956, si richiamò alla tradizione storica della Dc, affermando che da essa appariva chiaro che il partito non era disponibile ad alleanze di qualsiasi tipo «con forze che rinnegano il fondamento istituzionale dello Stato o che si ricollegano a funeste, dolenti esperienze tramontate», né poteva indebolirsi la vigilanza nei confronti del comunismo. Quanto alla possibile unificazione socialista, si trattava di una soluzione che non poteva essere posta come alternativa alla Dc se si intendeva rafforzare lo Stato democratico. «Senza i cattolici – disse Colombo – oggi non può vivere in Italia un autentico regime democratico››. L’atteggiamento della Dc doveva quindi essere di prudenza e di attesa «ma intanto dovrà continuare nella coalizione attuale senza indebolirsi se non vuole rischiare di intorbidire le stesse possibilità di chiarezza del processo in corso» [8]. . _

Anche al Congresso di Firenze, nell’ottobre 1959, manifestò incertezze di fronte all’ipotesi di apertura ai socialisti, dubitando sulla sincerità di Nenni e sulla sua affidabilità. Ma ribadì con forza la vocazione antifascista «Il nostro antifascismo è il solco che ci separa da tutto quanto si muove nello schieramento delle posizioni di destra››[9].

Il secondo momento di svolta si ebbe nel 1959, con il Consiglio nazionale della Domus Mariae, che vide Colombo tra i fautori della caduta di Fanfani e dell’avvento di Moro alla segreteria politica del partito. Ebbe ad affermare, nel corso del Consiglio nazionale, che bisognava guardarsi dal far prevalere il sentimento o il giudizio esteriore superficiale. «Il sentimento detta grande affetto e riconoscenza per l’on. Fanfani, ma questa votazione non è pro o contro Fanfani. Si tratta di un problema di ordine politico che interessa la vita interna del partito e dei suoi atteggiamenti all’estero›› [10].

L’affermazione della nuova corrente dei dorotei andava in gran parte a modificare l’assetto della leadership democristiana. Prendeva corpo un metodo e un costume politico che segnò la vita del partito nell’arco di circa quindici anni, dalla Domus Mariae ai primi anni Settanta, nel quadro della politica di centro-sinistra.

La nascita di questa corrente confermava la peculiarità della Democrazia cristiana come grande partito moderato di massa, articolato in maniera da garantire una molteplicità di consensi interclassisti e in grado di muoversi anche su diversi versanti ideologici, ma convergenti nelrispetto dei modi e dei metodi della democrazia, fedele a una linea di equilibrio delle varie tendenze interne, di destra e di sinistra del partito. In altre parole, il doroteisrno appariva come la forma nuova con la quale un partito socialmente composito come la Dc mirava a rafforzare la sua centralità nella politica italiana.

Colombo entrava nell’alveo del doroteismo, divenendone una tra le figure più rappresentative. Replicando ad alcuni giudizi negativi sul ruolo la posizione dei dorotei, Colombo precisò che l’orientamento del doroteismo non era di avversione alle riforme o contro il progresso del partito e le alleanze. «Volevamo, invece, – ha affermato – che le nostre evoluzioni fossero chiare all’interno della Dc e che non provocassero fratture: auspicavamo che tutto il partito [. . .] approvasse la nuova politica›› [11].

Al di là dei limiti che pur attraversano le vicende politiche italiane di questi anni e di questi uomini, dobbiamo comunque riconoscere alcune linee di fondo che hanno guidato i dorotei nelle loro scelte politiche. Innanzi tutto, come ha scritto Mariano Rumor, «la preoccupazione di tenere salda la linea del rigore democratico››, che si richiamava alla lezione di De Gasperi. In secondo luogo, «il leale sostegno alla svolta di centro sinistra», una formula politica che riuscì a sopravvivere, anche nei momenti più delicati, grazie a un «sostegno fermo e solidale» della maggioranza del partito. Un ulteriore merito va individuato nella fedeltà alla linea riformista.

Ai dorotei va anche il merito di aver operato in funzione dell’unità del partito, animandolo «intorno ai grandi temi della società italiana››, dalla programmazione al Mezzogiorno, offrendo, tra l’altro una immagine della Dc italiana «come punto di riferimento per il movimento democratico cristiano europeo e mondiale». Una stagione «ricca e positiva per il partito››[12]. Colombo fu una delle espressioni più preparate, equilibrate e coerenti di quella stagione politica. Il giovane studente, militante nell’Azione cattolica, aveva percorso un lungo cammino. Aveva ormai assunto il ruolo di statista e di protagonista di primo piano nella storia politica italiana, aveva acquisito esperienza e competenza in settori cruciali quali l’agricoltura, l’industria, la finanza e la vita economica del paese, meritando quel credito e quella fiducia che gli permisero di svolgere importanti funzioni anche in ambito europeo e internazionale.

NOTE

[1] E. Colombo, Per l’Italia e per l’Europa. Conversazioni con Arrigo Levi, il Mulino, Bologna 2013, pp. 12-14; D. Verrastro, E. Vigilante (a cura di), Emilio Colombo. L’ultimo dei costituenti, Laterza, Bari-Roma 2017, pp. 56-58.

[2] E. Colombo, op, cit, p. 16

[3] Ivi, p. 28

[4] G. D’Andrea, La ripresa della vita democratica in Basilicata. Il ruolo della Democrazia cristiana, in Storia della Democrazia cristiana, vol. III, Gli anni di transizione da Fanfani a Moro (1954-1962), Cinque Lune, Roma 1988, p. 408.

[5] E. Colombo, op. cit. p. 44.

[6] Emilio Colombo. L’ultimo dei costituenti, cit., p. 76.

[7] I congressi nazionali della DC, Cinque Lune, Roma 1959, pp. 521-523.

[8] I congressi nazionali della Dc, cit., p. 721-724.

[9] Atti del VII congresoo nazionale della Democrazia cristiana, Cinque Lune, Roma 1961, p. 393

[10] Comsiglio nazionale dc del 15-18 marzo 1959, pp. 169-70

[11] Emilio Colombo. L’ultimo dei costituenti

[12] M. Rumor, I dorotei, discorso pronunciato alla Festa dell’Amic izia di Bari del 18 aprile 1985, in Archivio di Mariano Rumor , b. 329, fasc. 164

 

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