MEMORIALE SANGUINANTE DI MORO

Raffaese Liucci – Il Sole 24 Ore, Domenica, 11 ottobre 2020

Una ricorrenza significativa. Trent’anni fa, il 9 ottobre 1990, ristrutturando il vecchio covo milanese delle Brigate Rosse in via Monte Nevoso a Milano, un muratore scoprì dietro un pannello di gesso le fotocopie dei manoscritti del «memoriale» di Aldo Moro (ossia le sue risposte scritte agli interrogatori cui era stato sottoposto), insieme a buona parte delle lettere da lui vergate durante la prigionia. Anche se 12 anni prima, nel medesimo bilocale, era già stata ritrovata una versione dattiloscritta parziale dello stesso memoriale, sarà soltanto con il rinvenimento nel 1990 del ben più corposo manoscritto che questo straordinario e inquietante documento – forse il più importante dell’Italia repubblicana, secondo alcuni storici – poté essere attribuito con certezza ad Aldo Moro. Se le lettere riflettono i suoi frustranti tentativi d’interscambio con il mondo esterno (ne furono recapitate pochissime), il memoriale apre uno squarcio di luce sul mondo chiuso e sconvolgente del processo inquisitoriale subìto dal presidente della Democrazia Cristiana.

Ricavarne un’edizione critica – come ha fatto il gruppo di lavoro coordinato da Michele Di Sivo (vicedirettore dell’Archivio Centrale di Stato) e composto da Francesco M. Biscione, Sergio Flamigni, Miguel Gotor, Ilaria Moroni, Antonella Padova e Stefano Twardzik – è stata una vera impresa. Ci troviamo di fronte, infatti, ad un testo – rinvenuto, come si è detto, in duplice versione, dattiloscritta (1978) e manoscritta fotocopiata (1990) – assai complesso, non datato, pieno di cancellature, aggiunte, lapsus calami, errori di battitura, del quale tuttora non possediamo l’autografo originale (il cosiddetto «ur-memoriale»), probabilmente diventato oggetto di scambio in una trattativa segreta. È inoltre un documento mutilo e sanguinante. Mutilo, perché ne mancano alcuni segmenti (forse relativi a temi sensibili alla ragion di Stato, quali la strategia della tensione, Gladio e il conflitto mediorientale). Sanguinante, perché ha lasciato dietro di sé un’impressionante scia di persone morte nel tentativo di recuperarlo, come documentato già nel 2011 in un affascinante libro di Miguel Gotor, uscito ora in una nuova edizione tascabile (Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano, Einaudi).

Quali sono dunque le novità apportate da questa monumentale edizione critica – ricca di apparati, tavole di raffronto e note storiche – frutto di un impegno multidisciplinare che ha unito le competenze di storici, filologi, archivisti e grafologi?

Innanzitutto, si restituiscono alla scrittura di Moro il ritmo e l’ordine cronologico originari. Se in precedenza distinguevamo soltanto una serie di frammenti spezzati, adesso siamo in grado di cogliere l’intero flusso di pensiero del prigioniero. In una prima fase, Moro risponde alle domande dei suoi carcerieri (qui ricostruite dai curatori). Ma dopo la condanna a morte (16 aprile 1978), da memoria difensiva il memoriale si trasforma in una più ampia rivisitazione dell’intera storia repubblicana, nella quale Moro ha giocato un ruolo assai meno dominante di quanto credessero i suoi sequestratori. C’è poi una sezione finale, che riproduce un lungo scritto risalente alla fine di aprile: dando per scontata l’imminente liberazione, Moro parla della prigionia come di un’esperienza ormai conclusa e riacquista il piglio del politico tornato nell’agone. Alla luce dell’infausto epilogo (9 maggio 1978), sono queste le pagine più enigmatiche e angoscianti dell’intero memoriale.

In secondo luogo, la presente edizione ci permette di apprezzare l’acume non solo politico, ma anche intellettuale di Moro. Che scriva sulla libertà di stampa in Italia, sulla destra profonda boicottatrice sin dall’inizio del centro-sinistra, su Piazza Fontana, sul ritardo culturale della Dc di fronte ai nuovi fermenti della società, il suo sguardo è sempre lucidissimo. Quando poi affronta argomenti quali l’evoluzione (o involuzione) tecnocratica delle democrazie, i finanziamenti illeciti alla politica (scoperchiati da Tangentopoli nel ’92) e le sorti dell’europeismo, diventa addirittura preveggente. Il suo stile, qui, è tutt’altro che fumoso, bensì schietto e diretto, venato di una punta di malinconia.

In terzo luogo, l’analisi grafologica ha stabilito che nelle prime settimane del sequestro Moro ha scritto su di un ampio tavolo, in una posizione comoda, mentre da metà aprile in poi ha lavorato in condizioni più critiche, con il bloc-notes appoggiato sulle ginocchia. Questa scoperta incrina la vulgata brigatista (sostanzialmente avvalorata dall’autorità giudiziaria), secondo cui Moro sarebbe rimasto per tutti i 55 giorni rinchiuso nell’angusto cubicolo di via Montalcini (Roma), senza mai avere a disposizione un tavolo e senza mai cambiare prigione.

Infine, il problema più spinoso, quello dell’autorialità del memoriale, sul quale gli stessi curatori – nei loro saggi introduttivi – non sembrano aver raggiunto una posizione unanime. Dietro queste pagine, c’è il vero Moro? La risposta è duplice. Da un lato, vi si scorge la sua «intelligenza prigioniera» (Di Sivo), il suo abituale e costante lavorio di limatura dei testi, la sua irriducibilità alle ragioni dei carcerieri. Moro, insomma, non scrisse sotto dettatura o sotto l’effetto di droghe o in preda alla sindrome di Stoccolma. Dall’altro lato, non bisogna dimenticare che lavorò in condizioni disumane di cattività, con la morte sempre accanto e ben quattro costole rotte e doloranti (vedi autopsia). Sotto lo stretto controllo dei suoi carnefici, ingaggiò con loro un estenuante corpo a corpo di cui ora si cominciano a intuire i contorni. È dunque possibile, come già dimostrato da Gotor per le sue lettere, che anche nel memoriale Moro sia stato costretto ad aggiunte e omissioni che non rispecchiavano la sua volontà. Pur se l’impronta di fondo resta indubbiamente morotea.

Possiamo, in definitiva, considerare il memoriale come un tipico esempio di scrittura sotto persecuzione, nella quale, per usare le parole di Leo Strauss, «la verità sulle questioni cruciali appare esclusivamente fra le righe», poiché il perseguitato è continuamente impegnato a celarla con trucchi e stratagemmi ai suoi stessi carcerieri. L’attuale edizione critica ci offre molte chiavi per ricomporre questa verità.

 

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