GIAMPAOLO D’ANDREA

La manifestazione odierna si svolge nell’immediata vigilia dell’anno centenario della nascita dello statista lucano, uno dei più longevi esponenti della Prima repubblica: membro del1’Assemblea costituente, deputato ininterrottamente per undici legislature (fino al luglio 1992, allorché, chiamato per la seconda volta alla guida della Farnesina, rassegnò le dimissioni in ossequio alla incompatibilità tra il seggio parlamentare e la carica di ministro, appena introdotta dalla Dc con l’Assemblea nazionale di Assago), più volte parlamentare europeo e, infine, per oltre dieci anni, senatore a vita, nominato dal Presidente della Repubblica C.A. Ciampi «per aver illustrato la patria con altissimi meriti nel campo sociale». Eccezionale anche la continuità di presenza nei tanti governi succedutisi dal V De Gasperi (1948-1950) al I Amato (1992-1993): sei volte da sottosegretario, trenta da ministro e una da Presidente del Consiglio. Agricoltura, Industria e Commercio, Tesoro, Bilancio, Finanze ed Esteri furono gli ambiti rilevanti della sua attività governativa, i luoghi nei quali maturò e si arricchi la sua competenza ministeriale, crebbe la sua autorevolezza e si impose il suo prestigio anche a livello internazionale.

Resta memorabile il successo personale conseguito nel 1979, da capolista della Dc nella circoscrizione dell’ Italia meridionale, in occasione delle prime elezioni a suffragio universale diretto del Parlamento europeo (che, da presidente uscente, aveva accompagnato verso quella svolta decisiva). Così come apparve in seguito quasi naturale, se non obbligata, l’attribuzione del prestigiosissimo premio Carlo Magno (1979) e delle medaglie Schumann (1986) e Monnet (201 1) a una personalità spesasi senza riserve nella realizzazione del sogno europeo, che può considerarsi la vera stella polare di tutta la sua vita politica, come diranno meglio altri dopo di me.

In altre occasioni mi è capitato di sottolineare come le lunghe carriere politiche della Prima repubblica, a volte trattate con fastidio e considerate sintomo di stanchezza, se non ostacolo ai processi di cambiamento, in realtà costituissero un fattore di forza e di stabilità del sistema, indispensabile in una stagione fondativa e di grandi trasformazioni di un paese come l’ Italia, chiamato, con il dopoguerra e la scelta repubblicana, a guadagnarsi una nuova reputazione internazionale con un orizzonte ambizioso e a radicare nella sua vita di tutti i giorni valori e speranze che dovevano orientarne l’azione. Tutto ciò in un contesto politico-istituzionale che – giova ricordarlo proprio a treni’anni dalla caduta del Muro di Berlino – era caratterizzato dal sistema elettorale proporzionale puro, dalla limitatissima alternanza delle forze di governo e dalla giustificatissima allergia a ogni forma di elezione diretta, che solo lontanamente potesse avere il sapore di investitura plebiscitaria.

Di Emilio Colombo non abbiamo ancora una biografa compiuta, né disponiamo di una raccolta sistematica dei tanti discorsi pronunciati in quasi settant’anni di impegno politico e istituzionale, da membro del governo, nelle sedi internazionali, al Senato, alla Camera, al Parlamento europeo o in occasione delle tantissime cerimonie pubbliche, dei convegni di studio, dei congressi e delle riunioni degli organi della Democrazia cristiana e delle sue correnti, o delle tante campagne elettorali. Così come manca una raccolta degli articoli scritti sin da giovanissimo (che danno ragione del suo percorso di avvicinamento dai vertici della Giac alla vita politica)[1], nonché delle tantissime interviste e dei servizi giornalistici, apparsi sulla stampa italiana e internazionale e diffusi dalle emittenti radiotelevisive di mezzo mondo. Già questa potrebbe rappresentare una traccia di lavoro complementare al riordino delle carte e dei documenti, per sua volontà depositati allo Sturzo, ove sono consultabili, per altro, moltissime delle fonti correlate, utilissime per ricostruire i contesti, le relazioni e le dinamiche di una stagione densa di esperienze e di trasformazioni meritevoli ancora di studio e di approfondimento.

Si rivelano, intanto, sempre più preziosi la conversazione-intervista con Arrigo Levi, pubblicata pochi mesi prima della sua scomparsa [2] e lo straordinario racconto fatto al microfono di Alessandra Peralta, a partire dal 2009, confluito nel documentario Emilio Colombo: memorie di un Presidente (disponibile gratuitamente in rete dal 2016) [3]. Essi ci restituiscono, ancora integra, la sua straordinaria lucidità di analisi, la forza delle sue convinzioni, la consapevolezza del servizio reso alle istituzioni, al suo paese e alla sua gente lucana, che continuò ad avere nel cuore fino alla fine, consapevole del presidio di legittimazione democratica e popolare che gli aveva costantemente assicurato, con suffragio sempre più largo, sin dagli esordi al tempo della Costituente. Ma anche il senso del limite di ogni storia personale e collettiva, il rammarico per le occasioni perdute, l’equilibrio e la saggezza che solo una esperienza cosi lunga e intensa potevano generare e che aveva voluto trasmettere nel discorso pronunciato nell”Aula del Senato il 13 aprile del 2010, in occasione dell’omaggio resogli per i suoi novant’anni. «Se c’è un messaggio che vorrei affidare a chi è più giovane di me, a quanti sono tanto giovani, benché senatori in quest’Aula – affermò con una lungimiranza quasi profetica – è di credere nella democrazia, senza imboccare scorciatoie, di difenderla dalle tossine del populismo, che diviene una inclinazione diffusa e una illusione, se persuade che la democrazia non implichi fatica, sacrifi e coerenza›› [4].

Probabilmente il suo pensiero andava in quel momento alle radici del suo impegno politico, ai primi incontri, alle prime riunioni, alla decisione di candidarsi, a soli 26 anni, con la Dc per la Costituente, nella sua Basilicata [5]. Alle pressioni dei vertici nazionali dell’Azione cattolica, come certamente ricorderà Francesco Malgeri, agli incoraggiamenti del suo vescovo, il mantovano Augusto Bertazzoni, una straordinaria figura di pastore, allievo di don Bosco, dal 1930 alla guida della diocesi di Potenza e Marsico, rimastogli sempre vicinissimo con i suoi consigli e i suoi ammonimenti (ma, come era solito ricordare, «senza essere intrusivo nelle questioni politiche››), che un recente decreto di papa Francesco ha riconosciuto Venerabile [6] . Al sostegno assicuratogli da don Vincenzo D’ Elia, storico arciprete della sua parrocchia, formatosi nel Seminario romano dell’Apollinare, in corrispondenza con Ernesto Buonaiuti, promotore sin dal 1913 della prima organizzazione del movimento politico dei cattolici in Basilicata, incaricato nel 1919 da Sturzo di dar vita al Ppi nella regione e, già sul finire del fascismo, tornato attivo nella preparazione dei giovani cattolici al nuovo ordine [7]. Infine anche allo speciale rapporto che lo legava al di lui nipote, don Giuseppe De Luca (molto caro a papa Giovanni XXIII) [8] che lo aveva aiutato a orientarsi nel mondo romano, ove aveva intrecciato presto rapporti, come gli altri esponenti Dc della sua generazione, con l’allora sostituto segretario di Stato mons. Montini. Ma ripensava, evidentemente, anche al difficile periodo vissuto in clandestinità a Roma, per sfuggire al mandato di cattura da parte dell’esercito tedesco, dai giorni immediatamente successivi all’8 settembre fino e oltre l’arrivo delle truppe alleate nel giugno 1944, nonché ai primi contatti con quelli che poi sarebbero diventati i promotori della Dc, già conosciuti nei convegni della Giac e poi della Fuci. Negli anni successivi gli era capitato molto spesso di raccontare quanto lo avessero colpito le parole indirizzate nel 1945 da De Gasperi, a Roma, ai gruppi giovanili della Dc, destinate a rappresentare la bussola fondamentale dell’azione politica anche per noi più giovani, con quella sua opzione senza riserve per la libertà: «Noi vogliamo essere il partito della libertà anche per gli altri: la libertà del popolo italiano nei rapporti internazionali, ma soprattutto nei rapporti interni». A esse aveva ancorato anche la sua coraggiosa e netta scelta per la Repubblica, non facile e non scontata, risultata determinante per il raggiungimento in Basilicata, al referendum istituzionale, del lusinghiero risultato del 40,2 per cento: nel Mezzogiorno, prevalentemente monarchico, inferiore solo a quello registrato in Abruzzo. Questo, insieme alla sorprendente affermazione personale conseguita alle elezioni per la Costituente (20.922 preferenze), contribuì a consacrarlo come leader in ascesa della nuova generazione, riferimento, al tempo stesso, della continuità dei valori cattolico-democratici e della necessaria svolta rispetto alla democrazia liberale prefascista, in Basilicata impersonata da una figura del calibro di Francesco Saverio Nitti (giudicato «personalità di cultura ed intelligenza straordinarie››), appena rientrato dall’esilio [9].

Sottolineava, spesso, la straordinaria esperienza vissuta alla Costituente dell’incontro con tante autorevoli personalità di diverso orientamento politico, che avevano avuto un ruolo importante già prima dell’avvento del fascismo, costrette poi all’esilio o al silenzio, ma ora finalmente in grado di esprimersi liberamente, o con i leader emersi dalla Resistenza e con gli altri eletti meno giovani di lui, che presto ebbero l`occasione di distinguersi nei lavori d’Aula o di Commissione. Certamente gli scorrevano nella mente le diffìcoltà incontrate – prima da sottosegretario a fianco del ministro Segni e poi da ministro dell’Agricoltura del suo primo Governo (1955) – per varare i primi interventi di riforma agraria e per la bonifica e il recupero produttivo di grandi aree del Mezzogiorno (la Capitanata, il Tavoliere, il Crotonese, la piana di Sibari) e del Centro Nord (le Valli di Comacchio, Ferrara). Tutti erano stati messi a punto e realizzati all’interno di una organica strategia riformatrice, in collegamento sempre più stretto con gli strumenti dell’Intervento straordinario per il Mezzogiorno e le aree depresse del Centro Nord e grazie al supporto assicurato da una ecnostruttura come la Cassa. Come dimenticare il battesimo del fuoco di Melissa (novembre 1949), con il famoso “lodo” che, offrendo uno sbocco concreto all’occupazione delle terre attraverso l’applicazione delle norme sull’assegnazione ai contadini delle terre incolte, lo proiettò a livello nazionale? E poi la Legge Sila (12 maggio 1950, n. 230), la Legge Stralcio (21 ottobre 1950, n. 841) e, tra esse, l’indimenticabile visita a Matera del Presidente De Gasperi del luglio 1950, con l’incarico di presiedere un apposito comitato interministeriale per la definizione della proposta governativa all’origine della Legge speciale per i Sassi (17 maggio 1952, n. 19) [10], che disponeva la creazione dei nuovi borghi rurali residenziali, la costruzione di nuovi rioni urbani e l’azione diretta di risanamento dei famosi rioni con le caratteristiche abitazioni scavate nella roccia. Un complesso di iniziative da lui definite «grande operazione di giustizia e di riscatto del mondo contadino, che in gran parte viveva ancora in condizioni di vera e propria miseria» anche «per il permanere di un arcaico sistema contrattuale e dei connessi istituti giuridici che costringevano un intero mondo che lavorava la terra a una vita di stenti».

In realtà si trattava di un disegno messo a punto già durante i lavori della Costituente, in particolare con Segni e Taviani, anche in relazione alla definizione degli articoli 41/44 della Carta, che affermavano «un’idea della proprietà privata che viene riconosciuta in uno statuto di libertà, ma nell’ambito di una cultura che fa propri i principi di solidarietà e mutualità» e che trovava riscontro in una «società capace di combattere l’egoismo e di costruire valori di convivenza nei quali prevalga il sentimento del bene comune». I citati primi provvedimenti di riforma agraria avevano cominciato a trovare compimento, sulla base della convinzione, fortemente radicata in De Gasperi, che, una volta assegnate loro le terre, anche i contadini si sarebbero sentiti «veramente cittadini di una Repubblica democratica››.

Da ministro dell’Agricoltura (1955-’58) partecipò anche alla sottoscrizione dei Trattati di Roma (1957), che istituivano, con il Mercato comune europeo e l’Euratom, la Comunità economica europea. Nella implementazione del percorso comunitario ebbe modo di impegnarsi ancora direttamente, in seguito, da ministro del Commercio con l”Estero a ciò espressamente delegato dal Presidente del Consiglio Fanfani (1958-‘59) e poi da ministro dell’Industria. In quella fase rivelò insospettabili qualità di negoziatore; l’«Economist››, in una serie di articoli [11], gli attribuì il merito della riapertura delle trattative per l’ingresso del Regno Unito nella Comunità europea; Indro Montanelli, sulle colonne del «Corriere della Sera›› [12] del 16 marzo 1962, di lui, tra l’altro, scrisse:  la rapidità e la sicurezza con cui questo provincialino di Potenza ha saputo impadronirsi di tutti i problemi e di tutte le formule per risolverli hanno dell’incredibile. Sotto maniere sorridenti e cortesi, c’è un contrattatore di ferro. […] Sa tutto, e di tutto si serve per difendere gli interessi italiani. Però non li spinge mai fino a ledere quelli europei. Ed è questa lealtà che gli ha guadagnato le simpatie e il rispetto generali.

Gli anni della sua presenza al ministero dell’Industria (1959-‘63),  inizialmente accolta con una certa diffìdenza, furono anche quelli del cosiddetto “miracolo economico”, secondo la celebre definizione coniata nel maggio del 1959 dal «Daily Mail», con una crescita impetuosa della nostra economia che portò a compimento la trasformazione dell’ Italia da paese prevalentemente agricolo a potenza industriale, la seconda del continente. Un risultato che l’europeista Colombo non poteva non collegare all’avvio del libero scambio su scala europea, effetto dei Trattati di Roma, che avevano favorito una fase di «particolare vitalità» alimentata dalla «fiducia nella nostra possibilità di uscire dalla depressione postbellica». Sono di questa fase, tra l’altro, provvedimenti come la nazionalizzazione dell’energia elettrica (1962), uno dei fiori all’occhiello della strategia riformatrice dei primi governi di centro-sinistra, 0 la nascita dei centri siderurgici di Taranto e Bagnoli, che allora alimentò tante speranze relative alla produzione dell’acciaio e all’occupazione, così come l’Alfasud di Pomigliano d`Arco, o gli investimenti Eni in Valbasento e Montedison a Brindisi o, ancora, le misure per l’incentivazione delle piccole e medie imprese e l’artigianato (1959), accolte molto favorevolmente dal mondo produttivo.

Con il primo governo Moro (1963) si stabilizzò la sua lunga presenza alla guida del Tesoro, iniziata con il primo governo “balneare” guidato da Giovanni Leone e protrattasi, con poche e limitate interruzioni, sino al 1976. Essa fu caratterizzata dallo stretto legame con il governatore della Banca d’ Italia Guido Carli e dal tentativo di tenere l’equilibrio dei conti pubblici al riparo dagli effetti dell’espansione della spesa e dalle esigenze, pur legittime, della redistribuzione della ricchezza, che interessò più direttamente gli addetti dell’industria, con conseguente aumento dei consumi, senza particolari effetti sull’inflazione. Una strategia sviluppata con successo, che non sfuggi soprattutto agli osservatori internazionali; il «Financial Times» volle assegnare alla lira, nel febbraio 1965, l’Oscar quale Star currency of the year. Anche in quella stagione non rinunciò a collocare costantemente la sua iniziativa e le sue posizioni nell’orizzonte internazionale, attento particolarmente alla credibilità e alla reputazione del nostro paese, alla sua capacità di onorare gli impegni presi, al suo ruolo di protagonista in Europa e nel mondo, in grado di sviluppare con coerenza, lealtà e determinazione l’iniziativa propria di una grande democrazia protesa, assieme alle altre, al superamento delle crisi economico-finanziarie e politiche al mantenimento della pace. Un filo conduttore che ritroviamo in tutti i suoi interventi e le sue prese di posizione anche negli ultimi anni al Senato, quando non perdeva occasione per stimolare tutti a un maggiore impegno proprio in quella direzione, esprimendo la preoccupazione che dal deterioramento dello scenario politico internazionale potessero derivare spinte sovraniste gravide di conseguenze pericolose.

All’indomani delle prime elezioni dei Consigli delle Regioni a statuto ordinario, nell’agosto del 1970, a cinquant’anni, forte di un’esperienza ministeriale generalmente apprezzata e ormai consolidata, fu chiamato a guidare il governo, in una fase molto complicata, segnata in particolare dagli effetti devastanti dello stragismo (pochi mesi prima, a dicembre, c’era stato l’attentato di piazza Fontana), destinati a perdurare anche negli anni successivi, mentre cominciavano a rivelarsi anche i primi piani delle Brigate rosse, e il tentativo abortito di colpo di stato guidato da Iunio Valerio Borghese. ›

Riuscì a costituire ancora un governo quadripartito di centro-sinistra, l’ultimo di quella stagione, con il socialista De Martino vicepresidente, Moro agli Esteri, il socialdemocratico Tanassi alla Difesa, il repubblicano Reale alla Giustizia. Negli stessi giorni divampava, intanto, a Reggio Calabria la rivolta del “boia chi molla” occasionata dalla disputa sul capoluogo della Regione Calabria, alle sue prime scelte come le altre Regioni a statuto ordinario. Per riportare l’ordine, in una situazione sempre più grave e confusa, fu costretto, suo malgrado, a ricorrere all’esercito; ma volle impegnarsi soprattutto nella messa a punto di un “pacchetto” di interventi di sostegno allo sviluppo della regione, secondo una strategia coerente di continuità con il profilo meridionalistico che aveva costantemente caratterizzato il suo impegno.

Illustrando il programma del suo governo nella seduta della Camera del 10 agosto, aveva ribadito l’impegno a proseguire «nell’azione diretta ad incrementare tangibilmente gli investimenti pubblici e privati, a fini produttivi, nel Mezzogiorno», accompagnandolo con affermazioni pregnanti e coraggiose.

È ormai generale il convincimento della convenienza economica, oltre che della utilità sociale, che il capitale e le capacità imprenditoriali si spostino là dove c’è il lavoro. L’applicazione della contrattazione programmata ha già dato tangibili segni. L’azione delle aziende a partecipazione statale ha dato e darà il suo insostituibile apporto. La creazione di un unico centro di direzione della politica economica da realizzare con l’assorbimento nel CIPE dei vari Comitati di Ministri e in particolare l’assorbimento del Comitato per il Mezzogiorno e per le zone depresse, può essere un utile strumento per interventi organici.

Qualche settimana dopo, a Bari, in occasione dell’inaugurazione della XXXIV Fiera del Levante, definì «riforma di base dell’economia e della società italiana, quella che passa attraverso un riequilibrio sostanziale dell’economia meridionale rispetto all’economia delle altre regioni». Ln questo senso poteva affermarsi che «il problema del Mezzogiorno è veramente un problema nazionale, e non quindi, come si riteneva un tempo, uno dei problemi italiani, ma “il problema” caratterizzante l’ordinato sviluppo del Paese negli anni °70››[13].

Recuperato il dialogo con le forze sociali, si dedicò alla realizzazione di un importante programma di riforme in materia di fisco, casa, sanità, attuazione dell’ordinamento regionale, con attribuzione di funzioni ai neonati enti territoriali, e rilancio della politica meridionalistica, premiata dalla vistosa riduzione del divario Nord-Sud, con il pil del Mezzogiorno che toccava proprio in quegli anni il 66% di quello del Nord. Sul piano europeo e internazionale, insieme con il ministro degli Esteri Moro, intensificò le relazioni con i maggiori leader della politica mondiale, al fine di favorire la politica di distensione. In questo ambito pervenne il 6 novembre al riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese e concorse con  convinzione al negoziato per il primo allargamento verso nord (a Regno Unito, Irlanda, Norvegia e Danimarca) dell’Unione europea con la firma del relativo Trattato di adesione (gennaio 1972).

A fine dicembre 1971 le polemiche seguite all’elezione, con il concorso determinante del Msi, di Giovanni Leone a Presidente della Repubblica resero inevitabili le dimissioni del governo e, per la prima volta nella storia della Repubblica, lo scioglimento delle Camere e le elezioni anticipate.

Nei mesi successivi riprese l’ impegno governativo, prima al vertice dei ministeri economici e poi anche alla Farnesina, intervallato, tra il 1977 e il 1979, dalla presidenza del Parlamento europeo e dal 1989 al 1992 da un secondo mandato al Parlamento europeo a elezione diretta, dopo quello già ricordato del 1979.

Da ministro degli Esteri (1980-1983), con l’iniziativa assunta con il collega tedesco Genscher (1981), mise in moto il percorso verso la Dichiarazione solenne di Stoccarda (1983), in seguito confuita nell°Atto unico europeo (1986), che avrebbe aperto la strada al Trattato di Maastricht, firmato dal suo successore Giulio Andreotti (1992), ma che toccò poi proprio a lui sottoporre alla ratifica del Parlamento, a coronamento del suo ultimo impegno ministeriale (1992-93).

Soleva ricondurre soprattutto ad Alcide De Gasperi (per lui «il costruttore della prima stagione del riformismo politico e sociale, il vero traghettatore del nostro Paese nella democrazia moderna››) l’ispirazione e lo stile del suo impegno politico e della sua azione di governo. Lo statista trentino rappresentava, infatti, «il punto più moderno di una sintesi tra spirazione cristiana e laicità dell’impegno politico, sobrietà e rispetto del valore delle istituzioni, dignità e onestà nel servizio alla democrazia». A lui, in particolare, riconosceva il merito di aver saputo trasformare la debolezza dell’ Italia del dopoguerra, la sua «vulnerabilità di paese sconfitto e politicamente lacerato››, in un fattore di forza, attraverso la sua collocazione «nel cuore di quel grande processo di integrazione dell’ Europa a cui Konrad Adenauer e Robert Schumann avevano guardato, insieme con lui, ome antidoto al riemergere di nazionalismi armati, di egoismi e di antiche fratture storiche e politiche». Non c’era occasione in cui non richiamasse questo grande ideale, non lo additasse con forza anche all’ impegno di noi più giovani o ne parlasse con passione come «il cuore di una missione che dilatava i confini e le speranze della politica e che riempiva di senso universale la nostra presenza nelle istituzioni nazionali››.

NOTE

1 Cfr. in particolare la raccolta delle ristampe anastatiche de «L’Ordine››, postfazione di A. Labella, Venosa 1988. Il giornale, già organo regionale del Ppi, già il 15 febbraio 1944 riprese le pubblicazioni per dar voce ai democristiani potentini che si definivano «militi soprav vissuti, convinti e fedeli».

2 E. Colombo, Per l’Italia, per l’Europa. Conversazione con Arrigo Levi, il Mulino, Bologna 2013. Dal volume sono tratte tutte le citazioni virgolettate di Emilio Colombo.

3 La trascrizione integrale, arricchita da una preziosa serie di testimonianze di gran-de valore, è anche nel bellissimo volume curato da D. Verrastro ed E. Vigilante, Emilio Colombo. L’ultirno dei Costituenti, Laterza, Roma-Bari 2016.

4 Cfr. Senato della Repubblica, Legislatura 16, Aula, resoconto stenografico della seduta n. 357 del 13/04/2010.

5 Cfr., in proposito, V, Verrastro, Prima organizzazione politica dei cattolici nel secondo dopoguerra in provincia di Potenza, in A. Cestaro (a cura di), Studi di storia sociale e religiosa. Scritti in onore di Gabriele De Rosa, Ferraro, Napoli 1980, pp. 397-430.

6 Su mons. Bertazzoni cfr. in particolare: G. Messina, Augusto Bertazzoni. Un vescovo tra la gente, Paoline, Milano 2010; G. Messina, G. D’Andrea, Chiesa del Nord e Chiesa del Sud a confronto. Le diocesi di Mantova e Potenza e il vescovo Augusto Bertazzoni, Atti del Convegno del 13-14 maggio 2011, promosso dall`Associazione per la storia sociale del Mezzogiorno e dell’Area mediterranea e dalla Conferenza episcopale della Basilicata, Congedo, Galatina 2013 (con una testimonianza di Emilio Colombo) e da ultimo D. Verrastro (a cura di), L’episcopato di Augusto Bertazzoni nella Basilicata del suo tempo, Atti del Seminario di studio del 26-27 ottobre 2017, Deputazione Lucana di storia patria, Osanna, Venosa 2019.

7  Su mons. D” Elia cfr. G. De Rosa, Un giornale cattolico lucano nei primi anni del secolo, in «Rassegna di politica e di storia››, n. 33, 1957; A. Cestaro, Don Vincenzo D’Elia (1874-1962) prete giornalista, in «Rassegna storica lucana», n. 9-10, 1989, e anche il mio La formazione dei giovani cattolici lucani durante il Fascismo, in «Orientamenti sociali», n. 1, 1981.

8  Sui rapporti con don G. De Luca cfr. M. Picchi (a cura di), Don Giuseppe De Luca. Ricordi e testimonianze, Morcelliana, Brescia 1963.

9  Sul dopoguerra e la ripresa della vita democratica in Basilicata rinvio al mio Dal Governo di Salerno alla crisi della prima repubblica. Problemi interpretativi e percorsi di ricerca, in G. De Rosa, A. Cestaro (a cura di), Storia della Basilicata, 4. L’età contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 265-349. .

10  Cfr. A. Pontrandolfi, La vergogna cancellata. Matera negli anni dello svuotamento dei Sassi, Altrimedia, Matera 2019.

11.  Cfr. in particolare Colombo il mediatore (18 agosto 1962) e Non sparate sul pianista (7 dicembre 1962).

12 Come nasce l ‘Europa Unita (16 marzo 1962).

13 Per la ricostruzione delle linee di impegno meridionalistico cfr., in particolare, oltre agli atti parlamentari, il volume curato da Dino Basili Scritti e discorsi di Emilio Colombo sulla politica per il Mezzogiorno. Raccolti in occasione dei suoi 25 anni di vita parlamentare dai democratici cristiani della Lucania. – 2 giugno 1971, Italgraf, Roma 1971

 

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