GEOGRAFIA DEGLI AFFETTI FAMILIARI: LA MADRE, IL PADRE, IL NONNO

Dalla Prefazione a L’Indulgenza del cielo del professore Franco Vitelli: “Ritorna la geografia degli affetti familiari“. In Visione c’è il ricordo della madre che risplende nell’abito da sposa, sicché a lei le montagne si rivolgono quasi per devozione; quella stessa madre che vaga tra le ombre in cerca del figlio, il quale si nasconde per non farla soffrire di nostalgia. Una scena di straziante bellezza che esalta la delicatezza e profondità dei sentimenti. D’altra parte, l’ingenua velleità di fermare il tempo, stirando le rughe del viso, provoca addirittura l’accenno di un sorriso da parte della madre ormai avviata «sulla strada dell’addio». Mentre la figura del padre è restituita nel ritmo della vita di paese con le cadenze che si ripetono intatte: il gioco delle carte che però qui è sfida alla vecchiaia; l’uccello nella gabbia, simbolo di premura e svago. A interrompere questa collaudata catena, un colpo al cuore che brucia per sempre il fremito dell’allegria (Sussulto).” Tra i temi ripresi, accanto alle figure genitoriali, quello del figlio mai nato.

IL FIGLIO MANCATO

Illusioni e Intimità: due poesie dedicate al figlio mancato. Il prof. Vitelli vede una figura familiare accanto alle figure genitoriali: « Tra i temi ripresi, accanto alle figure genitoriali, quello del figlio mai nato. Tutto è giocato sul sogno e sulla fantasia che porta ad amare un figlio, non importa se il proprio («Lo ami / a dispetto delle somiglianze / che non ti appartengono»( Illusioni). Un desiderio che cresce quando si rivela precario l’orizzonte del futuro: «E tu ripensi al dondolio di una culla tra gli alberi che perdono le foglie» (Intimità)». Non legge il secondo verso (e la libellula canta). Le libellule non cantano, il canto non è una qualità che la natura abbia loro donato. È destino. Il destino che Trufelli rappresenta col dono negato a questo magico insetto visto nella cultura europea come simbolo di libertà, pace e ricerca della verità, che possiamo leggere in un bella favola raccontata da Francesco Smelzo, intitolata appuno La libellula che voleva cantare, subito avanti riportata, e pubblicata nel libro Storie dello stagno.

LA LIBELLULA CHE VOLEVA CANTARE

« Allo stagno, le libellule erano ammirate come gli animali più belli. Si potevano vedere librarsi nel primo sole del mattino, che, con i suoi raggi ancora deboli, illuminava di arcobaleno i loro corpi mentre planavano leggere sull’acqua. Parevano danzare, coperte di veli iridescenti, al suono di una musica che solo loro sentivano. Gli altri animali non potevano che ammirare la naturale eleganza, sia in volo che quando, a volte, si fermavano sui bianchi fiori di ninfea. Parevano essere state create per essere ammirate. E loro lo sapevano.

Infatti le libellule erano note per essere un po’ compiaciute della propria grazia perché si dice, tra gli animali che li avevano osservati attentamente che talora si fermassero in volo a mezzaria sopra lo stagno per rimirare la propria figura riflessa nell’acqua. Tra loro però ve n’era una che non era felice. Si chiamava Lilli. Ma Lilli non era stata sempre infelice.

Poi, una mattina d’estate mentre si librava a mezz’aria specchiandosi , all’improvviso udì un dolce canto. Era una melodia cristallina che sembrava disegnare nell’aria figure di filigrana d’oro e d’argento. Lilli si chiese da dove venisse tale meraviglia, volse in alto lo sguardo e vide  un piccolo uccello sopra un ramo del salice che si protendeva sopra lo stagno.

«Chi sei tu che hai una voce tanto soave e perché non ti ho sentito mai prima cantare?» – chiese all’uccello. «Sono un usignolo e mi chiamo Lorenzo, mi sono fermato in questo stagno per riposare prima di ripatire verso il sud, meta del mio viaggio, mia bella libellula.”

«Quindi presto ripartirai e non sentirò più il tuo canto?» – disse Lilli. «Sì, presto riprenderò il mio viaggio. Oggi stesso. Ma prima voglio cantare ancora per te.» E l’usignolo intonò allora un canto struggente e delicato, mentre la libellula che si era posata su un bianco fiore di ninfea, ascoltava incantata.

Quando ebbe finito l’usignolo disse: «Adesso è tempo che mi rimetta in volo verso il sud, dove mi aspettano i miei simili, ma tornerò ancora a sostare presso questo stagno, agli inizi dell’estate, quando noi usignoli ci spostiamo verso il nord, dove il giorno è lungo e breve la notte.» «E anche allora ti fermerai per il tempo di un canto?» – gli chiese triste la libellula. «Sì, è questo il destino di noi usignoli: quello di viaggiare e di non fermarsi, E ognuno deve seguire il proprio destino, è stato bello incontrarti.» Lorenzo l’usignolo, dopo aver detto queste parole spiccò il volo. “Ognuno deve seguire il proprio destino” – pensò Lilli –ma qual è il mio destino?”

All’improvviso non era più contenta, né compiaciuta di ammirare il suo corpo illuminato di arcobaleno ai deboli raggi del sole del mattino. All’improvviso avrebbe voluto anche lei cantare come Lorenzo e saper produrre quei dolci suoni. All’inizio, per la verità ci provò, ma tra le doti che la natura aveva donato alle libellule non c’era purtroppo quella di una bella voce.

Nel frattempo le giornate diventavano sempre più corte e si approssimava l’inverno e Lilli, che pensava sempre al canto che le era negato, non si curava dell’arrivo dei primi freddi e non cercava riparo, come le sue compagne, tra i rami dell’albero.

Una mattina, mentre la libellula era ferma su una canna a fissare tristemente lo stagno ghiacciato, venne scossa da un brivido di freddo. Il brivido le fece muovere involontariamente le ali, che  produssero un suono, un breve suono, come una nota di viola. Lilli ripeté il movimento più volte, questa volta intenzionalmente, e, come per magia, ogni volta il suono si ripeteva. Esercitandosi capì anche come modulare questo suono, ora più acuto ora più grave, a seconda se stringesse o allargasse i muscoli delle spalle. Presa dall’entusiasmo per la scoperta di questa qualità che non sapeva di avere dedicò giorni e giorni a raffinare quella tecnica, finché fu in grado, con il battito delle ali, di riprodurre la melodia che aveva sentito cantare a Lorenzo.

Le altre libellule non capivano il perché di tutto questo sforzo e le dicevano: «Noi libellule siamo state create per allietare la vista, non l’udito. Lascia che a questo pensino altri animali. » Ma lei non se ne curava, sentiva che riprodurre quei suoni di viola, a cantare con la sue ali, era il destino che si era scelta. E divenne brava, molto brava.

Gli animali dello stagno non si fermavano ora solo per il suo corpo illuminato di arcobaleno ai deiboli raggi del sole del mattino, ma anche per ascoltare quel canto che proveniva dalle sue ali. L’inverno passò e le giornate cominciarono a farsi più calde. Sullo stagno tornarono le ninfee e così’ posavano le libellule.

Un giorno, mentre Lilli si stava scaldando ai primi raggi del sole su un bianco fiore di ninfea, si sentì di nuovo un canto. Lilli, questa volta, sapeva chi era. Volse in alto lo sguardo e vide Lorenzo cantare sopra un ramo delle salice che si protendeva sopra lo stagno.  Prese allora anch’essa ad accompagnare la melodia con il contrappunto di viola che proveniva dalle sue ali. L’intero stagno si fermò incantato ad ascoltare Lorenzo e Lilli che eseguivano quella musica finché , terminata l’esecuzione, la libellula domandò all’usignolo. «Ripartirai presto?» «No, questa volta mi fermerò qui.» – rispose lui. “È il tuo destino?” – chiese lei. “Grazie a te il mio destino è cambiato.” – disse.

Da quel giorno Lillli, la libellula che doveva cantare, riposava ogni mattina, con il suo corpo illuminato di arcobaleno ai deboli raggi del sole, sul ramo del salice che si protendeva sopra lo stagno, finché non scendeva Lorenzo e insieme intonavano un canto che allietava tutti gli animali.

VISIONE

Le tue ansie, i sussurri

della tua solitudine. Non avevi

mai tempo per pregare.

Mi riappari in sogno nell’abito da sposa.

Visione superba, madre mia

offri orgoglio alla notte, le montagne

ti chiamano per nome.

Mi cerchi tra le ombre, ti vedo

passare e mi nascondo

per non farti soffrire di nostalgia.

SUSSULTO

Giocavi a carte e vincevi

contro la vecchiaia. Il canarino

si esibiva nella voliera.

Un sussulto, un sospiro e così sia.

La morte ti sorprese

col tressette tra le mani.

Quant’allegria finita in una sera.

ILLUSIONI

Giocare con un figlio

della fantasia.

Giocare a occhi chiusi

con impossibili speranze. Lo ami

a dispetto delle somiglianze

che non ti appartengono.

Nel delirio di un sogno

cantavano

i figli mai cresciuti.

INTIMITÀ

È tornato un altro temporale

e la libellula canta

quando tutto è finito.

E tu ripensi al dondolio

di una culla tra gli alberi che perdono le foglie

 

4 Responses to Mario Trufelli: Geografia degli affetti familiari (Visione, Sussulto, Illusioni, Intimità)

  1. Amatore Salatino ha detto:

    Pensieri affascinanti, belle creazioni. Quando è chiaro il sentire, l’anima del poeta prende a volare e spazia libero sulle ali della sua fervida fantasia creatrice. E crea il suo mondo…libero.

  2. Amatore Salatino ha detto:

    Un caro saluto al gentilissimo Signor Antonio Martino, per tutte, per me, primizie che mi sta donando.

  3. domenico langerano ha detto:

    Ciao.
    Grazie per le poesie di Mario proposte alla lettura e per la bellissima favola di Francesco Smelzo autore che non conoscevo, comprerò il suo libro su Amazon per leggerlo in questo periodo di fine anno che si paventa di reclusione che speriamo non dover affrontare
    Mimmo

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