3. FRATELLI NELLA COMUNITA’ ECCLESIALE

     Il termine «fratello (adelphos)» compare decine e decine di volte negli scritti neotestamentari. A essi non è ovviamente ignoto il riferimento parentale, tuttavia  il salto qualitativo lo si ha allorché questa parola viene impiegata per indicare una condizione paritaria all’interno della comunità (una situazione che avrebbe trovato ben pochi riscontri effettivi nella millenaria storia delle Chiese cristiane): «Ma voi non fatevi chiamare “rabbi ” poiché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro quello celeste» (Mt 23, 8-9). Una esemplificazione particolarmente efficace di questa accezione la si ha nel quarto dei cinque discorsi in cui Matteo raggruppa gli insegnamenti di Gesù. Si tratta di quello  dedicato alla vita della comunità ecclesiale (ekklesia) (Mt 18). In questa sezione, in cui il termine «comunità» è privo di ordinamento gerarchico, la parola «fratello» torna quattro volte (Mt 18,15 [due volte].21.35). Tutti i membri della chiesa sono perciò posti sullo stesso piano. Ognuno è responsabile a pari titolo dell’altro. Eppure non si tratta di una comunità di perfetti.  In essa vi sono infatti comportamenti errati e conflitti.

   Nel brano c’è una variante significativa. Molti autorevoli codici affermano semplicemente così: «se tuo fratello pecca», senza aggiungere «contro di te» (Mt 18,15). È fratello ma pecca. Non pecca però contro di te. Se commettesse una colpa contro di te la risposta per eccellenza (come si affermerà pochi versetti dopo Mt 18, 21-22) sarebbe quella del perdono. Ma se pecca non contro di te? Nei versi precedenti al passo dedicato alla «correzione fraterna», vi sono parole molto dure riservate allo scandalo (Mt 18,5-10). Ci sono forme di peccato rispetto alle quali la riconciliazione si dà soltanto attraverso il cambiamento di vita di chi scandalizza. Non intervenire sarebbe questione non di comprensione ma di connivenza e collusione. In alcuni casi non c’è altra scelta che quella dolorosa dell’amputazione, a cominciare da se stessi: «Se la tua mano e il tuo piede ti è motivo di scandalo taglialo e gettalo via da te…» (Mt 18,8).

    La versione accolta come ufficiale nella Chiesa cattolica recepisce però il «contro di te»: «se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te» (Mt 18, 11). Si inizia tentando una riconciliazione a tu per tu. Può fallire. In questo caso, secondo un modello biblico (cfr. Dt 19,15), si chiamano in causa due o tre testimoni. Vi è però una differenza rispetto alla prassi antica; ora essi sono convocati per tentare una riconciliazione e non già per accertare una colpa. Occorre  cercare di attuare una pacificazione. È un dato di realtà che pure questo tentativo possa fallire. Da ultimo ci si rivolge perciò alla comunità; neppure in questo caso l’esito è garantito. In luogo della riconciliazione irrompe l’estraneità. Il fratello si trasforma in un «altro». In una simile circostanza il fallimento lo si misura su entrambi i fronti. Ecco allora palesarsi l’altra via, quella del perdono (tema ampiamente sviluppato nell’enciclica, cfr. in particolare, nn. 237-239; 246)

   L’“altra storia” inizia con la domanda di Pietro: «Signore se il mio fratello commette una colpa [alla lettera «peccherà»] contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?» (Mt 18,21). Le parole dell’apostolo restano nella memoria soprattutto per la misura abbondante, ma pur sempre limitata, entro la quale ritengono di dover imbrigliare il perdono; Gesù invece indica che occorre perdonare sempre. Tuttavia non va dimenticato che è stata proprio quella domanda a spostare il discorso dalla sfera dell’ammonimento all’atto di perdonare. Trascritta in termini della vita comune, la successione proposta in questo brano evangelico va, in effetti, capovolta. In Matteo si passa dall’ammonimento al perdono, nelle nostre vite il perdono è invece l’indispensabile precondizione per essere in grado di ammonire, con costrutto, chi ci ha offeso.

   Tutta la parte conclusiva del diciottesimo capitolo di Matteo è dominata dalla necessità di conservare una «proporzione» all’interno di una «sproporzione».   Anche il settanta volte sette umano è solo un piccolo riflesso rispetto all’infinito perdono divino. La parabola del «servo spietato», a cui è annullato un debito inestinguibile ma che rifiuta di dilazionare il pagamento del piccolo credito che ha nei confronti di un suo compagno (alla lettera «conservo»), è spesso collegata alla «proporzione» contenuta nel Padre nostro:«rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12; Lc 11,4); «Infatti se perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (Mt 6, 14-15). Vi è però una differenza: nella chiosa matteana alla «preghiera di Gesù» si comincia dal basso, nella parabola del capitolo diciottesimo si inizia invece  dall’alto, vale a dire dal condono dell’enorme debito attuato dal re (figura del Padre). Non bisogna trascurare la presenza della sproporzione. Il peccato umano nei confronti di Dio è inestinguibile; tema un tempo posto, persino in modo ossessivo e non di rado improprio, al centro della vita di fede e ora evaporatosi come nebbia al sole.

   Ai nostri giorni si crede in un Dio sempre disposto a perdonare mentre si stempera a tal punto la dimensione del peccato da non essere più consapevoli dell’enormità del debito che abbiamo contratto nei confronti del Padre. Nella parabola le cose non stanno in questo modo: il rapporto tra diecimila talenti e cento denari, secondo gli studiosi, è di circa uno a seicentomila. In sostanza, al primo servo (parola nobile nella tradizione biblica, qui si tratta di luogotenente, di un funzionario di alto rango) il debito è condonato perché egli non è nelle condizioni di onorarlo (diecimila talenti è una cifra da bilancio statale). Dal canto suo, per quanto grave sia la colpa commessa contro di noi da un fratello, essa è piccola cosa rispetto al peccato che si evidenzia quando ci si pone di fronte a Dio. Ma in che consistono questi diecimila talenti fatti di peccato? Sono debiti. Che significa? I debiti indicano la dimensione della colpa non quando li si contrae ma quando non li restituisce. Il nostro peccato rientra più nella sfera dell’omissione che in quella dell’azione. Nel quinto discorso (quello escatologico) contenuto nel Vangelo di Matteo,  le «pecore» saranno salvate in virtù di quanto da loro compiuto nei riguardi di «questi miei fratelli più piccoli» (Mt 25, 40) che sono nel bisogno, mentre le «capre» saranno condannate per quel che non hanno fatto e non già per le azioni malvagie da loro compiute (cfr. Mt 25, 41-46). Davanti a Dio ci si coglie sempre al di sotto di quanto si è chiamati a essere. Per questo occorre essere perdonati. Il Padre è un’ “eccedenza perdonante”. Rispetto a Dio non si tratta tanto di singole colpe quanto della nostra condizione di peccatori, mentre nei confronti degli altri è in gioco sempre e solo una serie di colpe specifiche. Sono piccole cose. Il fatto che si sia chiamati a perdonare significa che l’offesa subita non è quella suprema che priva l’altro della vita. Quando il fratello diventa in senso letterale Caino la parola ultima, infatti, è concessa soltanto al Signore (cfr. Gen  4,8-16). Il perdono umano, per quanto sempre da concedersi, è racchiuso in limiti invalicabili (cfr. Fratelli tutti, n. 246).

 

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