IL FILO DI UNA TRADIZIONE: Sette liriche di Mario Trufelli, “L’indulgenza del cielo”
Dalla Postfazione del prof. Franco Vitelli:
2. Circola un clima di solidarietà intellettuale nel quale Trufelli si riconosce, quasi alla ricerca del filo di una tradizione da cui prendere le mosse per ricostruire una cultura forte e una salda morale. Siamo di fronte a personalità che si sono distinte in ambiti diversi, legate tra loro e con Trufelli da consolidati vincoli di amicizia. A cominciare dal pittore Luigi Guerricchio, di cui il poeta fa il ritratto e l’epicedio (L’eco delle grotte), legando la genesi della sua arte alla civiltà rupestre dei Sassi e alla vita che in essa si celebra; non in chiave grezzamente realistica, ma in una sospensione surreale scandita dal canto degli uccelli sui rami dell’albero, rimasto incompiuto per la morte improvvisa. Una tonalità stilistica che appartiene allo stesso Trufelli che si dimostra sensibile al «sibilo della serpe» che «raccontava favole» e attento all’apertura dell’urna della veggente da cui «fiorivano le favole / sulle 208 facce incantate dei bambini». Ma, ancor più, conta quella Favola dei calanchi, che è un omaggio a Carlo Levi, in funzione del quale Trufelli recupera con adeguamento perfetto un racconto mitologico inventato per il documentario televisivo Paese giorno e notte. La seconda parte – più specifica sullo scrittore torinese confinato ad Aliano che ha reso universale – si conclude in comunione d’arte e di spirito nel segno dei fiori; la malvarosa, fiore trufelliano, ne è il trait d’union («Sul suo sepolcro / i fiori fioriscono a ogni stagione. / In primavera / fiorisce anche la malvarosa»). Non si dimentichi che Giorgio Caproni nel 1957, a proposito del fascicolo dattiloscritto mandatogli in visione, così si era espresso in una lettera all’autore: «Mi piace anche il tono di favola (di favola vera) che lei a volte assume, come ad es. in Il Buio».
I referenti sono costanti se, come è vero, essi appaiono di già nell’altro libro di poesie, Prova d’addio, e anche nelle prose odeporiche dell’Ombra di Barone; mi riferisco a Rocco Mazzarone, Dinu Adamesteanu, Rocco Scotellaro.
Sul primo si veda Grovigli d’ombra, che è il profilo di un personaggio complesso, da romanzo e tale in effetti compare in Torre greca di Ann Cornelisen con le sembianze di Luca Montefalcone.
Quel mandare «messaggi / tra grovigli d’ombra» o cifrati, come altra volta Trufelli dice, coglie in pieno la personalità di Mazzarone che aveva fatto di sé un eroe della discrezione che 209 nel silenzio tracciava con più acume di altri le vie del futuro. Il quale doveva poggiare sul filo di una virtuosa continuità capace di coniugare tradizione e progresso, guardando al passato con l’occhio sgombro dal pregiudizio. E quel vincolo di sangue col paese («Passi e ripassi, una vita / sotto l’arco consolare / con gli eroi scalfiti nella pietra») non ha impedito al medico-sociologo di Tricarico di essere cittadino del mondo, delle cui esperienze molteplici si faceva portatore per forme equilibrate di cambiamento.
L’omaggio a Dinu Adamesteanu si trova nel Tumulto dei millenni; poesia che viene correttamente intesa solo in rapporto con la prosa Il pianto della dea che oltre a chiarire la dedica fornisce il quadro storico-archeologico da cui prende le mosse. Perché a Dinu, archeologo sommo, si deve molta parte delle scoperte lungo la costa jonica, e non solo. Quella dea mutilata «sotto l’arco del tempio a cielo aperto» è Atena Iliaca che pianse per «l’esecuzione di massa dei giovani che si erano rifugiati nel suo tempio dopo aver invano tentato di difendere Siris» dai predatori achei. Della sua figura viene evocata la fiducia nella nobiltà dell’eroismo: non a caso era arbitra con “giubilo” delle gare tra gli eroi. Aver «sottratto la dea al sacrilegio » – l’immagine della mutilazione fa pensare a una profanazione gratuita – sarebbe una missione incompleta senza la scoperta dell’antica Siris che Dinu fa comunque riemergere dal «tumulto 210 dei millenni». E con ciò la «storia è compiuta» dal punto di vista del dotto; ma desolazione e abbandono aleggiano sugli scavi icasticamente rappresentati dal «cane del pastore» che «annusa, accarezza un fiore». Proprio nella chiusa sta il senso della poesia, far diventare coscienza diffusa la salvaguardia del patrimonio archeologico che è parte sostanziale dell’identità.
Più complessa la questione di Rocco Scotellaro, che condivide con Trufelli la medesima origine tricaricese e l’esercizio della poesia. Sicché inevitabilmente il discorso si sposta sul piano delle ascendenze o derivazioni, su quanto il poetasindaco abbia potuto costituire un modello per il conterraneo di alcuni anni più giovane. Scotellaro non poteva porsi come paradigma neutro, meramente tecnico; egli s’imponeva col peso della sua esperienza civile e politica a difesa dei contadini meridionali. Trufelli è uno degli ultimi testimoni diretti che ha tenuto in serbo dentro di sé la lezione che Scotellaro dette dal palco sul quale celebrava la vittoria alle Amministrative del 1946; «ora siamo più liberi», disse e identificò quella maggiore libertà con la lotta per il possesso della terra.
Nella celebrazione in versi di Scotellaro, Trufelli si pone sulla scia di nomi illustri, da Amelia Rosselli a Vittore Fiore; è quasi una costante del suo agire poetico, una “metafora ossessiva” che rispecchia i suoi “miti personali”. Una prima 211 esemplificazione si trova in due componimenti di Paese giorno e notte. Nella Lettera di un poeta (destinatario Gino Montesanto) si dà atto che la ventata d’aria nuova che Rocco ha portato è in via d’esaurimento, perché nessuno più piange il poeta contadino; fa seguito un conflitto di generazioni e l’impossibilità di conciliare l’antico e il moderno.
In Siamo più soli Trufelli canta l’isolamento dopo la morte precoce di chi aveva aperto nuove vie, annegando ritualmente il dolore nelle tazze colme di vino. Secondo l’esplicitazione della dedica, queste riflessioni poetiche sul ruolo di Scotellaro erano partite da Gino Montesanto, da una sua lettera del Natale 1957. Lo scrittore “romagnolo” nel viaggio a Tricarico, a fronte della miseria impressionante, esprime il dubbio circa la possibilità di trasformare la realtà e conclude amaramente che «il povero Rocco in faccia al grande letto grigio del Basento continuerà a non avere pace perché la sua protesta c’è pericolo che col tempo somigli a una favola». Su questo tarlo dell’eredità tradita lavorò ieri e continua a lavorare oggi Trufelli: Scotellaro è entrato di diritto «nei simulacri della Sapienza / che fa grandi i poeti», è parte interiorizzata del paesaggio geografico e antropologico, ma «nessuno più [lo] sogna», alla sua tomba solo «visite furtive» (Una rete di ombre). Come dire che i suoi ideali politici sono entrati in crisi, non si capisce se per triste degenerazione dei tempi o per incapacità d’analisi. Del resto, a riscontro di questa 212 mutevole fortuna, «variano anche le espressioni / sul volto del poeta della libertà contadina» nella foto ricordo. Par di capire implicitamente che l’«invito a lottare / che convinse gli uomini della terra», non trova oggi adesione convinta in quanto altro è il punto d’impatto della protesta (La torre a vedetta). E aumenta il distacco, «Il calendario, crudele / allunga gli anni dell’assenza»; l’inquietante richiamo del cuculo non dice più nulla: «Ma oggi / c’è silenzio nel teatro della piazza / dove gridavano gli orfani della terra / mentre tu parlavi di libertà» (Gli anni dell’assenza).”
L’ECO DELLE GROTTE
a Luigi Guerricc hio
I
Bisbigldove maturavano i giornii di pastori, ansimare
dell’asina e del mulo
suoni domestici nelle grotte dei Sassi.
Gli anni si consumano lenti.
Un dormiveglia il ritorno
dove maturavano i giorni
tra le gole profonde della Gravina.
Un gatto solitario rincorre l’ombra
del topo fuggitivo, s’immergono
nel salmodiare delle cicale.
Dal fondo della grotta,
sornione, sorride
il pittore dei Sassi.
II
Ogni grido è un addio
ogni anno che passa un ricordo.
Origliano le stelle, cinguetta il merlo
ospite sul pino che sorveglia i morti.
È tutta una fioritura di ricordi
mutevoli nel tempo, si struggono
nell’addio di un amico.
Dipingevi l’albero in solitudine
ti spiavano gli uccelli
ansiosi di cantare favole
tra i rami in fiore
di quell’albero non finito.
LA FAVOLA DEI CALANCHI
a Carlo Levi
Un giorno quando il mondo si divise
Un giorno
quando il mondo si divise
nella torre di Babele,
un uomo stanco di parole e di guerre
affidò all’uccello
grande e possente
il suo destino.
Era un falco,
quell’uomo gli chiese di guidarlo.
Vagarono per anni
attraversarono fiumi e monti.
Un giorno il falco si fermò
su di un’aspra rupe.
Si guardò attorno e disse:
“Uomo, questo è il punto
più alto della terra”.
L’uomo ascoltò il consiglio,
si fermò finalmente
e costruì lassù
il magico paese dei calanchi.
Il falco fa il nido
sulla cima dei calanchi.
È un pellegrino, si rifugia
sul tuo sepolcro
nel cimitero di Aliano
quando il vento
scuote le cime dei cipressi,
fa volare foglie, polvere
e fiocchi di asfodeli.
Dall’abisso del confino
Carlo Levi entrò
nella storia di un paese
per secoli
sepolto nel silenzio.
Col Cristo si è fermato a Eboli
l’ha tolto dal silenzio
l’ha reso universale.
Sul suo sepolcro
i fiori fioriscono a ogni stagione.
In primavera
fiorisce anche la malvarosa.
GROVIGLI D’OMBRA
a Rocco Mazzarone
I
Passi e ripassi, una vita
sotto l’arco consolare
con gli eroi scalfiti nella pietra.
Un sollievo la tua casa
nel labirinto dei ricordi.
Ti svegliavano all’alba
la tromba del fornaio
i galli, i riti del vicinato.
Quasi di nascosto
andavi incontro al giorno
nel solitario ascolto dei tuoi pensieri
che diventavano messaggi.
Nell’atrio consolare gli eroi
degli antichi trionfi
hanno subito l’offesa della fionda
l’innocenza dei fanciulli.
II
Hai chiuso gli occhi
nel cerchio del paralume
vestito di tutto punto
nel grigio che ti dona.
Non ti appartengono le scarpe
lucide e nere
l’ultima vanità per chi muore.
Il tuo passo, accorto
per non inciampare nei pregiudizi,
il passo di uno senza
appuntamenti, annotava presente
e futuro, mandava messaggi
tra grovigli d’ombra.
Sei andato via e le vecchie scarpe
sono ricomparse
con manciate di terra
che ti appartengono.
NEL TUMULTO DEI MILLENNI
a Dinu Adamesteanu
È mutilata la dea
sotto l’arco del tempio a cielo aperto.
Atena premiava
con giubilo le contese
al tempo degli eroi.
La clessidra avanza,
tu l’hai fermata
hai sottratto la dea al sacrilegio
hai gridato al vento: “Siris, dove sei?”.
L’hai ritrovata la città sepolta
nel tumulto dei millenni.
Camminavi con i piedi nel fango,
tu dicevi nella storia.
La tua storia è compiuta
è rimasto il silenzio degli scavi
dove abbaia, annusa, accarezza
un fiore il cane del pastore.
UNA RETE DI OMBRE
a Rocco Scotellaro
La tua parola gridata
nel vento della protesta
risuona nei simulacri della Sapienza
che fa grandi i poeti.
Ti ricordano le strade del paese
la curva dei monti, gli echi
degli organetti variopinti
la zampogna solitaria.
Ti ricordano le allodole
che ciarlano davanti alla tua tomba
dove una rete di ombre
appare e scompare nelle visite furtive.
È come un richiamo, Rocco
la tua vita si era fatta leggenda
ma nessuno più ti sogna.
LA TORRE A VEDETTA
Sul sacrario di famiglia
con l’aria del seduttore
nella foto ricordo sorride
Rocco, il capopopolo
che cantava bandiera rossa
insieme ai contadini
in lotta coi padroni.
“Non si ferma il lamento della campagna”
gridava.
Un invito a lottare
che convinse gli uomini della terra.
Tra scene di tumulti popolari
tornano i ricordi.
Con la luce che va e viene
variano anche le espressioni
sul volto del poeta della libertà contadina.
Si sogna quasi
nel cimitero di Tricarico
con l’antica torre a vedetta
che inorgoglisce i vivi e i veri.
Ad ali spiegate
un falco cacciatore
va in cerca di prede.
Mantelli di edera
gli vietano l’assalto sui sepolcri.
GLI ANNI DELL’ASSENZA
Il cuculo disperato
che non ti faceva dormire
non lo sente più nessuno
nella città delirante.
Torno al paese
fertile nella nostra giovinezza.
Rocco, rivivo quel mondo magico
nella memoria. Ma oggi
c’è silenzio nel teatro della piazza
dove gridavano gli orfani della terra
mentre tu parlavi di libertà.
Il calendario, crudele
allunga gli anni dell’assenza.
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