Cronaca? Memoria? Forse Totò direbbe quisquilia. Come definire altrimenti una telefonata di cui non si conosce l’oggetto della conversazione, anche se fatta dal ministro dei telefoni? Vediamo, magari cercando di infiocchettare la storiella per mettere Totò dalla parte del torto.

I personaggi principali che animano la storiella sono i coniugi Jervolino – Angelo Raffaele lui, Maria de Unterrichter lei -,  , in particolare il marito Angelo Raffaele, all’epoca  ministro delle Poste e delle Telecomunicazioni nel V governo De Gasperi (1948 –1950) e don Michele Lauria, l’ufficiale postale di Tricarico conosciuto come don Michele La Posta.

I coniugi Jervolino erano legati da forte amicizia col vescovo di Tricarico Mons. Raffaello delle Nocche, del quale erano spesso ospiti. Tutt’e due – o l’uno o l’altra – erano di casa a Tricarico, ospiti del vescovo. Si spargeva la voce: – c’è Jervolino, senza titoli e appellativi e senza precisare se erano arrivati tutt’e due o uno solo. Li si vedeva a passeggio con monsignore nella sua consueta quotidiana passeggiata che compiva accompagnato dal vicario generale don Pietro Mazzilli e di loro si sapeva tutto; e ci si inorgogliva, come se il paese diventasse più importante o fosse protetto.

Angelo Raffaele Jervolino era nato in una famiglia poverissima e s’era fatto da solo, come si dice, diventando un brillante avvocato napoletano. Fervente cattolico e dirigente dell’Azione cattolica e degli universitari cattolici venne a contatto con un prete di una decina d’anni più anziano, di Marano, un grosso centro agricolo a nord di Napoli – don Raffaello delle Nocche, appunto. Quel prete aveva profonda e intensa spiritualità, fortificata con l’adorazione del Cuore di Gesù e lo studio delle scienze naturali, in cui si laureò. Alla spiritualità univa tanta saggezza da dispensare, e sapeva mettersi in ascolto come pochi, interloquendo con interventi essenziali, poche parole grattandosi la testa, che ti mettevano sempre un’idea in testa o ti chiarivano cosa in essa confusamente frullasse. Nacque un’amicizia destinata a durare tutta una vita, sempre viva anche quando don Raffaello, oramai monsignore, lasciò Napoli e andò a dirigere il seminario di Molfetta in Puglia e, poi, fu consacrato vescovo e incardinato nel 1922 nella diocesi di Tricarico, di cui fu Pastore per 38 anni, fino alla morte. La trentina Maria De Unterrichter negli anni Venti era stata presidente nazionale della Fuci femminile. L’impegno fucino favorì l’incontro, l’amicizia e il successivo matrimonio con Angelo Raffaele Jervolino esponente di primo piano dell’azione cattolica e della Fuci partenopea.

I soggiorni tricaricesi dei coniugi Jervolino erano frequenti. Passati gli anni, erano tre vecchi amici che si ritrovavano con piacere, quando potevano, a Tricarico o a Marano. Il vescovo aveva una inesauribile voglia di essere aggiornato sulla situazione politica e di ottenere appoggi per le sue opere meritorie. Nel 1946 e nel 1948 Maria De Unterricheter era stata candidata, per la Democrazia Cristiana, nella circoscrizione della Basilicata, rispettivamente, per l’elezione dell’Assemblea costituente e della prima legislatura repubblicana. Era anche candidata nel collegio unico nazionale, riservato agli alti esponenti dei partiti, ai quali la candidatura nel collegio unico, con l’utilizzazione dei resti, garantiva l’elezione sicura, ragione per cui –ad eccezione dell’azione cattolica femminile –non ci si impegnava più di tanto per farle avere voti di preferenza.

La lista per l’elezione dell’assemblea costituente era formata in ordine alfabetico e, per questa ragione, ne fu capolista l’ingegnere Giuseppe Catenacci di Rionero in Vulture, che fu il primo dei non eletti. L’ingegnere Catenacci è stato un uomo di grande ingegno e valore, ma è poco o per nulla ricordato in Basilicata. Figlio di un fabbro ferraio, Francisc lu ferrar, fu erede spirituale di Giustino Fortunato, che conobbe e frequentò nella sua casa di Napoli, dove ebbe modo di conoscere gli illustri personaggi che frequentavano numerosi la casa di don Giustino, tra i quali Benedetto Croce. Il grande filosofo ebbe per il giovane ingegnere lucano profonda stima al punto di accettare di fargli da testimone al suo matrimonio. Catenacci fu membro della Consulta Nazionale, un’assemblea provvisoria, istituita dopo la fine della seconda guerra mondiale, con lo scopo di sostituire il regolare parlamento fino a quando non fosse stato possibile indire regolari elezioni politiche. Convocata dal governo di Ferruccio Parri (la prima riunione si tenne il 25 settembre 1945), fece le veci del parlamento fino alle elezioni dell’Assemblea costituente del 2 giugno 1946. Il secondo posto in lista fu assegnato –per l’ordine alfabetico – al giovanissimo Emilio Colombo e il terzo alla signora De Unterrichter Jervolino. Furono eletti tutte due – la signora De Unterrichter Jervolino come candidata nel collegio unico nazionale -, più il dott. Mario Zotta di Pietragalla, consigliere di Stato, che sarà ministro per la riforma della pubblica amministrazione nel governo Zoli (20 maggio 1957 – 2 luglio 1958).

Nel 1948 l’on. Maria De Unterrichter Jervolino era stata capolista della lista circoscrizionale della Basilicata, seguita da Emilio Colombo e, al terzo posto, dall’ingegnere Catenacci, che risultò ancora una volta primo dei non eletti.

L’azione cattolica femminile, di cui era presidente diocesana di Tricarico la professoressa Carmela Scotellaro, cugina di Rocco Scotellaro, e le suore dell’Ordine monastico fondato da mons. Delle Nocche, presenti in tutti i paesi della diocesi e in molti paesi della regione, svolsero una intensa attività di propaganda a favore della capolista. La propaganda era capillare, casa per casa, ripetutamente battute, per insegnare a votare a elettori in maggioranza analfabeti, con l’ausilio di fac-simile della scheda.

Insegnare a votare la candidata n. 1 era facile: si trattava di tracciare un’asta. Un po’ più complicato insegnare a scrivere il n. 2 del posto in lista dell’on. Colombo. Dopo aver fatto poggiare sul fac-simile, verso l’alto, il dito indice della mano sinistra, si insegnava a far girare la matita attorno alla punta del dito e, quindi, a staccare un brevissimo trattino. Era stata invece un’impresa disperata insegnare a votare il n. 3 all’elezione dell’Assemblea costituente, servendosi dei diti indice e medio della mano sinistra.

L’ingegnere Catenacci sarà ancora candidato nel 1958, ma questa volta col Movimento Comunità dell’ingegnere Adriano Olivetti, che ne sollecitò personalmente la candidatura. Di quella lista fu candidato Antonio Albanese, che accompagnai in un suo giro elettorale.

E ora torno finalmente alla quisquilia. Il ministro Jervolino, trovandosi a Tricarico, ebbe un problema: doveva fare o ricevere una importante telefonata; impresa dai lunghi tempi d’attesa non preventivabili, che anche il ministro dei telefoni, se si trovava a Tricarico, bisognava che si adattasse ad affrontarla dall’unico telefono nell’unico posto telefonico esistente presso l’ufficio postale. Stabilire un contatto telefonico tra Tricarico e Roma, a metà del secolo scorso non era cosa semplice. Il solo posto telefonico era l’ufficio postale, dotato di un telefono che ricordava, nella forma di uno scatolone di legno azionato con una manovella, e nel funzionamento, i telefoni da campo della prima guerra mondiale. Il ministro conosceva la difficoltà dell’impresa e pregò di avvertire l’ufficiale postale in tempo, la mattina per il pomeriggio: tempo occorrente per stabilire il contatto con un ufficio postale della capitale e, quindi, concordare un appuntamento di modo che l’attesa del ministro fosse contenuta in un ragionevole lasso di tempo.

Don Michele La Posta era un gran lavoratore eternamente dietro lo sportello dell’ufficio, a forma ogivale, che incorniciava, come un’icona postale, la sua bella testa, ornata di radi capelli bene ordinati e infossata nelle spalle curve. La visita del ministro mise in ansia don Michele, che mobilitò le figlie a fare le “pulizie di pasqua” dell’ufficio; una volta messolo a lucido e bene incerato e moderatamente profumato, e stabilito un ordine perfetto, non un sola carta in vista o una matita, una penna, un calamaio, una gomma fuori posto, don Michele fece portare da casa il salotto buono: un divano e due poltrone di velluto rosso, che trasportarono i figli Gino e Benito aiutati da me.

Il ministro si affacciò al portone del palazzo vescovile, a pochi metri dall’ufficio postale, dette un rapido sguardo verso don Michele che l’attendeva sull’uscio dell’ufficio, percorse a passo svelto il breve percorso del marciapiede, stendendo la mano a don Michele, che ricambiò la stretta con un dignitoso inchino.

Dopo che i due furono spariti nell’ufficio, Gino e Benito sbucarono improvvisamente, abbassarono per tre quarti la saracinesca e vi si piantarono sull’attenti pronti a giustificare a eventuali utenti la temporanea chiusura dell’ufficio. Le poche persone che stazionavano in piazza non si capacitavano di ciò che stava accadendo: che ci andava a fare il ministro alla Posta? Un’ispezione? Come mai?

Il ministro e don Michele, nell’attesa della telefonata, rimasero soli. Don Michele era impegnato ad azionare la manovella e ad invocare il contatto gridando pronto, pronto. Ma tra i due certamente ci fu modo e tempo di scambiare qualche parola.

Don Michele per anni non ne volle parlare: se si toccava questo argomento si immobilizzava come una sfinge, e non se ne comprendeva la ragione. Il vescovo aveva molta stima della famiglia Lauria, era orgoglioso di Benito, studente all’Università cattolica, un suo pupillo, e certamente ne aveva parlato al ministro, che non poteva non essersi complimentato con don Michele. Possibile che don Michele avesse ritegno a riferire i complimenti del ministro? Il sospetto che ci fosse stato dell’altro si insinuava e non trovava spiegazione.

Quando don Michele finalmente si decise a parlarne, si capì cosa s’era tenuto sullo stomaco tutto quel tempo. I complimenti e le lodi c’erano state, eccome; e don Michele ne era ancora lusingato. Ma un’espressione del ministro l’aveva umiliato, anche se ora ne rideva. Fu quando il ministro si informò sulla situazione giuridica dell’ufficio postale. Don Michele, riferendo il fatto, spiegava ben bene che il servizio postale era da antichissima data un servizio che gode di pubblico privilegio, pur se con natura e caratteri assai diversi nel corso dei secoli. Era un privilegio pubblico il servizio della Roma imperiale, a mezzo del quale venivano mantenuti i contatti, trasmessi gli ordini e le informazioni fra l’imperatore e le autorità periferiche, con la possibilità per i privati di servirsi dei corrieri solo se ne avessero ottenuto imperiale licenza. Ai responsabili del servizio incombevano numerosi altri compiti, quale quello di provvedere anche all’alloggio e al ristoro dei corrieri imperiali e dei magistrati civili e militari. Di questa organizzazione, col tempo, se ne avvalevano anche i privati, e il servizio acquisì una qual certa organizzazione imprenditoriale, che richiedeva una attività organizzativa del complesso dei corrieri e della rete delle stazioni o «poste» (di cui resta traccia nel Trentino-Alto Adige nella rete degli Hotel Post). Il principio del privilegio pubblico fu sempre mantenuto fermo e di riflesso costituì privilegio anche il servizio di alloggio e ristoro, che era affidato in concessione a privati. Non era il solo caso: erano affidati in concessione anche i servizi per l’esazione delle tasse. Dell’ufficio postale dato in concessione, il concessionario, in buona sostanza, non era un pubblico impiegato, ma il «padrone». L’organizzazione periferica del servizio vedeva ancora, alla metà del secolo scorso, la compresenza di moderni uffici amministrativi e di servizi in concessione. Il ministro non gradiva questa situazione e si rammaricava di non avere il potere e il tempo di riformarla a fondo, ma di essere costretto a procedere con lenta gradualità. L’ufficio postale di Tricarico era dato in concessione e questo don Michele rispose al ministro, precisando che concessionaria era la moglie e nell’ufficio lavoravano lui e una figlia. Il ministro sibilò a denti stretti: «La solita cancrena». Fu un commento gratuito, fuori luogo, perché quel tipo di inquadramento giuridico era un dato oggettivo del tutto legittimo.
Quando don Michele si decise a raccontare l’episodio si avvertiva ancora il suo dispiacere e la sua mortificazione, e un giustificatissimo stupore.

Beh! Stimatissimo principe Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, converrà anche Sua Altezza Serenissima che questa storiella di 1953 parole non è proprio una quisquilia.

 

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