VII TAVOLA DI ALDO TURCHIARO: Che vogliono da noi?

LA PICCOLA SAGA DELLA FAMIGLIA DESOPO

     Sulla piccola saga di una famiglia di Tricarico – la famiglia Desopo di cui dubito che vi sia ancora qualcuno che la ricordi – si dipano alcune storie di emigrazione e storie connesse.

Innocenzo De Sopo – il capostipite – emigrò a Newark, New Jersey, meta dell’emigrazione tricaricese. I primi emigrati avevano tracciato la strada e posto le basi per la formazione di una comunità tricaricese: fiato di casa, aiuto nel bisogno, garanzia alle mogli rimaste a Tricarico e sicurezza per la famiglia. Non erano pochi i miei amici che avevano il padre a Newark, con i quali la guerra aveva interrotto ogni rapporto.
     I tricaricesi di Newark avevano tutti la doppia cittadinanza, americana e italiana. La cittadinanza italiana, durante la guerra, non provocò grattacapi, gli immigrati italiani furono lasciati in pace. Il tormento era il pensiero delle famiglie rimaste senza sostegni, dei figli in tenera età, di come le mogli se la sarebbero cavate a sfamare quelle bocche.
     Desopo, circa ogni paio d’anni tornava a Tricarico, rivedeva gli amici con cui bere qualche birra giocata a padrone e sotto, e concepiva un figlio. Attraversò l’Atlantico sette volte, l’ultima poco prima che avesse inizio il secondo conflitto mondiale e concepì il settimo figlio, Carmine, che, emigrato a sua volta bambino, è stato un politico repubblicano nello stato del New Jersey e ha ricoperto incarichi di governo statale. Ma non conosce l’italiano, non lo parla, non lo scrive, non lo legge e non lo comprende; spero per lui che almeno abbia avuto ritegno a non rimuovere il dialetto tricaricese.

     Rientrato definitivamente in Italia, nonostante che sette traversate dell’Oceano dovevano essere costate una bella sommetta, Innocenzo Desopo comprò una casa nel corso e una vigna con vignale sulla via Appia, poco dopo il camposanto. Al lato del cancelletto d’ingresso alla vigna scorreva un rivolo di acqua sorgiva, fresca e leggera. Era un rito abbeverarsi al pisciolo di Desopo durante la passeggiata sulla via Appia fino a Santa Maria.
     La sera sulla via Appia si riversava tutta Tricarico. Non c’era passaggio di automobili, l’aria era fresca, gli alberi di acacia in fiore diffondevano un gradevole odore, i ragazzi e le ragazze fraternizzavano e si facevano una corte discreta, qualche coppietta trovava modo di eclissarsi e darsi alla macchia.

     Innocenzo Desopo si arruolò nella milizia volontaria per la sicurezza nazionale (MVSN), esercito personale del duce, e fu adibito al servizio di ricognizione antiaerea. Accampati sulla collina di Santa Maria, in cima al versante di destra che parte dall’imbocco  della strada di Malcanale, i militi erano incaricati di osservare il passaggio di aerei e segnalare con un telefono da campo quello di aerei nemici o sospetti. Cessato con l’armistizio il servizio nella milizia, Desopo ottenne un posto di scrivano al Comune. Con lo stipendio che percepiva, unitamente ai vantaggi dei suddetti beni in proprietà, campava discretamente la numerosa famiglia e assicurava un’istruzione ai figli. Ma non campò a lungo. Morì lasciando la famiglia in una situazione critica non avendo raggiunto l’età della pensione .

     Solo il primogenito, Peppe detto Stalìn (con l’accento sulla i), aveva un lavoro. Il soprannome gli fu affibbiato perché era stato il secondo di Rocco Scotellaro nella fondazione del partito socialista di Tricarico e nell’intensa attività politica espletata, e gli rimase amico anche quando, in occasione della scissione di Palazzo Barberini, scelse la corrente dell’on. Saragat e, sonoramente fischiato dai socialisti e dai comunisti, presentò in piazza l’on. Enzo Pignatari, che era venuto a spiegare le ragioni della scissione. Peppe rimase sempre Stalìn, almeno per gli amici, tra i quali io, anche quando dette definitivamente addio alla scelta socialista e aderì alla DC: e allora ci fu la rottura definitiva con Rocco Scotellaro.
     Fu immesso a ruolo per l’insegnamento di educazione fisica presso il liceo-ginnasio Quinto Orazio Flacco di Potenza e sposò la professoressa Rosa Scaiano, che abitava al Monte, insegnante di matematica presso lo stesso istituto. Ma anche lui, come il padre, non visse a lungo. Colpito da una grave malattia, affidò l’ultima speranza a un  ricovero presso il Policlinico di Modena, che si riteneva avesse le migliori specializzazioni per la cura del suo male. Io vivevo a Ferrara e lavoravo a Bologna. Mi resi conto che la sua vita era giunta al termine e andai più volte a fargli visita. A Modena viveva mio fratello Franco, che, col suocero modenese, gli furono molto vicini. Dall’America giunse la sorella Filomena, per portare l’ultimo saluto della famiglia al fratello.

     Giuseppe Desopo ci ha lasciato, frutto di sue ricerche, interessanti e per certi versi sorprendenti materiali per una storia economica e sociale di Tricarico nei secoli XVII-XIX. Col consenso della famiglia e la presentazione di Carmela Biscaglia l’opera è stata pubblicata presso l’editore Rocco Curto di Napoli (poi RCEMULTIMEDIA) a cura di alcuni amici per ricordare il suo impegno civile e il suo attaccamento alla terra natale.

     Pancrazio e Filomena, il fratello e la sorella più anziani dopo Peppe, avevano preso il diploma di maestro di scuola e riuscivano a raggranellare qualcosa da incarichi saltuari d’insegnamento in scuole serali; prima o poi – più prima che poi – avrebbero ottenuto un incarico di ruolo. Il quarto fratello, Antonio, era aiutante in una bottega di barbiere; la vigna forniva frutta, vino e un paio di quintali di grano, pomodori e peperoni.

     Come altre famiglie che avessero avuto o avessero un familiare cittadino americano, decisero di avvalersi di una legge sull’immigrazione varata dal Congresso degli Stati Uniti e raggiunsero alla spicciolata Newark. Prima Filomena, poi la madre, quindi i fratelli e le sorelle minorenni…. ultimo Pancrazio.

     Innocenzo Desopo non aveva maturato il diritto a pensione, ma gli eredi avevano diritto a riscuotere l’indennità di licenziamento corrispondente a tante mensilità quanti gli anni di servizio prestato dal capo famiglia. Il Comune faceva orecchi da mercanti per ragioni di ripicca politica. Ci volle del bello e del buono perché la proposta di delibera giungesse all’esame del consiglio comunale e fosse discussa. Al primo esame l’indennità fu negata, illegittimamente perché si trattava di un diritto, di cui il consiglio comunale non poteva disporre.

     Ero presente tra il pubblico a quella seduta del consiglio comunale. Il sindaco e gli assessori e i consiglieri erano seduti attorno a un tavolo in una stanza del vecchio municipio, il pubblico quella sera numeroso, accalcato addosso agli amministratori, diceva la sua, secondo le simpatie o antipatie politiche di ciascuno. Il sindaco Nicola Locuoco faticava a far rispettare l’ordine. Il segretario comunale si sforzava di far comprendere quella che alcuni consiglieri ritenevano, o fingevano di ritenere, la stranezza di una indennità di licenziamento a un morto. Desopo non è stato licenziato, è morto – dicevano. Il segretario spiegava e tornava a spiegare che per licenziamento si intende una condizione che obbliga per forza a smettere di lavorare: o per previsione di legge o per disposizione dell’autorità amministrativa o giudiziaria; sempre di licenziamento si tratta. In caso di morte è come se il licenziamento lo avesse disposto il Padre Eterno. Ma il segretario non riuscì a convincere chi non voleva farsi convincere. In realtà si stavano sfogando risentimenti politici antichi e recentissimi: ma questa è un’altra storia che mi fa male ricordare e mai racconterò. Sono tra i pochissimi che conoscesse quella vicenda nei dettagli e credo di essere rimasto la sola persona che ne conservi il ricordo, che porterò con me nella tomba.

     La delibera che negava l’indennità fu annullata dal prefetto e il consiglio comunale finalmente si convinse a concedere l’indennità fi licenziamento, anche perché gli amministratori cominciavano a rendersi conto che potevano essere accusati di abuso di ufficio. L’avevano sempre saputo tutti, infatti, che si trattava di un diritto e non di una liberalità rimessa al buon cuore del consiglio comunale.

     La somma riscossa, col provento ricavato dalla vendita della vigna, fu utilizzata per affrontare la grande avventura dell’emigrazione di tutta la famiglia, sette persone in tutto, la madre e sei figli. Ne ho ricordati quattro, restano da ricordare due sorelle: Elena e Natalia.

IL MACCARTISMO

     Nel dopoguerra dall’Italia era partito un altro imponente flusso migratorio in diversi Paesi dell’America e d’Europa. La menzionata legge varata dal Congresso degli Stati Uniti favoriva il ritorno di chi avesse la cittadinanza americana e concedeva il diritto al ricongiungimento con familiari di cittadinanza non americana. Ma la prospettiva che la legge apriva venne in conflitto con uno dei capitoli più neri e squallidi della storia americana, che si ricorda col nome di maccartismo, quasi a voler scaricare la vergogna su un modestissimo e squallido senatore del Wisconsin, che sul terrore americano per il pericolo comunista costruì il suo quarto d’ora di celebrità, trascinando sul banco degli accusati e facendo espellere dagli Stati Uniti il fior fiore della cultura, della scienza e dell’arte americana. Il maccartismo fu l’esplosione di un’isteria generale, di un male profondo della società americana, che avvelenò la vita pubblica e danneggiò gravemente la reputazione degli Stati Uniti nel mondo. Le radici di questo male profondo non affondavano certamente nell’isteria, o nella furbizia, di un politico di mezza tacca, morto alcolizzato, ma in una crisi morale della società americana. Male profondo che si è in vario modo rinnovato col trumpismo, e speriamo che Joe Biden, che oggi si insedia alla Casa Bianca come 46.mo presidente degli Stati Uniti, riesca a sanare.
     L’ondata migratoria del dopo guerra, che non ebbe negli Stati Uniti la più consistente direzione, assunse dimensioni ragguardevoli, che ridussero a meno della metà i residenti a Tricarico. Sorsero nuove professioni per l’assistenza agli emigranti dal disbrigo delle pratiche burocratiche, al procacciamento di un posto di lavoro nel Paese di destinazione, ai contatti con i consolati per l’ottenimento dei visti, all’accompagnamento al punto d’imbarco al porto di Napoli.
     Gli aspiranti emigranti negli Stati Uniti furono vittime, complice il maccartismo, d’invidie, odii, malanimi. Bastava far giungere al consolato americano di Napoli una lettera anonima con l’accusa di sovversivismo per bloccare, talvolta definitivamente, una pratica di emigrazione. In quel periodo furono scritte a Tricarico, e non solo a Tricarico, pagine indegne, che rimarranno purtroppo sconosciute. Il consolato americano di Napoli, che aveva la sede ufficiale in un imponente palazzo al Lungomare, dovette triplicare i suoi organici, assumendo anche personale italiano che avesse una buona conoscenza dell’inglese, e a prendere in locazione alcuni edifici nella bella via Orazio, che da Mergellina sale al Vomero. Tra gli italiani assunti c’era un mio amico, fresco laureato in Lettere, che mi spiegò cosa stesse accadendo: si trattava di far fronte a un’imponente massa di lavoro che era cresciuta per impedire l’ingresso in America di pericolosi sovversivi. La prima segnalazione del grave pericolo era data da lettere anonime.
     Un giorno venne a cercarmi mastro Andrea Sellitti, barbiere con bottega nel corso di fronte alla cattedrale, che svolgeva anche funzioni di sagrestano; mi disse che nella sagrestia della Cattedrale mi aspettava un funzionario del consolato americano. Il suo arrivo a Tricarico, con un enorme macchinone, non era passato inosservato. Ero segretario della sezione di Tricarico della DC ed era quindi chiaro il motivo per cui il funzionario americano mi cercava e accettai di incontrarlo. Giunto al suo cospetto mi feci confermare ciò che già avevo supposto: ossia che aveva intenzione di incontrare il segretario locale della DC, ma non voleva chiedere in paese chi fosse e dove trovarlo per il timore che lo indirizzassero verso … un pericoloso sovversivo per depistare la sua missione. Entrò nella Cattedrale e si rivolse a mastro Andrea intento all’espletamento dei suoi compiti. La Cattedrale e il sagrestano gli dettero sicurezza.
     Aveva con sé alcune pratiche di aspiranti emigranti e voleva chiedermi informazioni sul loro orientamento politico. – Non c’è una sola pratica – mi disse – senza segnalazioni anonime. Noi vogliamo essere giusti, vogliamo accertare senz’ombra di dubbio chi è veramente un sovversivo che non deve entrare in America, perché pensiamo che non tutti lo siano, che non dobbiamo prendere per oro colato tutte le lettere anonime -.
   Gli risposi che se avessi collaborato avrei fatto il gioco delle lettere anonime, perché se non gli avessi indicato almeno un “sovversivo”, avrei gettato un’ombra su tutti gli altri.  Aggiunsi che nessuno, assolutamente nessuno, costituiva un pericolo per gli Stati Uniti e che l’aiuto di cui avevano bisogno se lo dovevano dare da soli, guarendo dall’isteria che rendeva ridicola l’America agli occhi del mondo intero.
     Ci rimase male, ma accettò la stretta di mano che gli porsi per il commiato. Io lo lasciai vergognandomi dei miei paesani autori di vigliacche lettere anonime, che causarono non pochi patemi d’animo e in almeno due casi produssero l’effetto voluto.
     In un caso si trattò di Santino Paradiso, mio compagno di giochi e mio amico. Egli emigrò, in America si sposò con un’americana oriunda tricaricese. La follia maccartista lo travolse e fu espulso e rimandato in Italia. Vissi con lui il suo dramma: per anni fece di tutto per risolvere il suo problema, vivendo con le rimesse che gli inviava la moglie. Anche per non continuare a pesare sulla moglie emigrò nel Venezuela e, finalmente, quando l’America riuscì a lenire il suo male profondo, rientrò in America, ricongiungendosi alla famiglia.
     Sorte analoga toccò a Vincenzo Miseo, zio di Santino. Egli abitava in via Roma, di fronte alla casa di Rocco Scotellaro, di cui era parente, faceva il muratore e aveva gestito con Vincenzo Carolillo il cinema pure in via Roma, in un locale sotto il palazzo di don Giovanni Santoro. A Vincenzo Miseo, cittadino americano, dovette nuocere la parentela con Rocco Scotellaro, al più era stato iscritto al partito socialista. Anche lui, come Santino, riuscì a tornare negli Stati Uniti dopo alcuni anni di traversie, previa sosta nel Venezuela. Rocco Scotellaro ricorda la parentela con Vincenzo Miseo e il visto per l’emigrazione che gli veniva negato:

[…]
altre cinquantamila lire,
se il cugino non sfondava il tetto
della cappella per porlo lì,
come lo spuntone di una trave,
dopo tre giornate di fatica offerta
perché lui spera che io lo faccia partire
in America, dove ha figli e moglie,
e lui, già cittadino, non lo vogliono.

     Pancrazio Desopo, dunque, fu l’ultimo della famiglia a emigrare. Partì col viaggio inaugurale della Cristoforo Colombo in un pomeriggio del mese di luglio del 1954, nei giorni in cui al San Carlo si celebrava il IV congresso della Democrazia cristiana che segnò l’epilogo dell’era degasperiana. Con lui partì anche Michele Armento, detto Michele Battaglia, che abitava in via Roma. Li accompagnai alla partenza fin sulla panchina d’imbarco, grazie alla complicità di un amico sottufficiale di marina in servizio al porto, che mi procurò un permesso di accesso, non so quanto regolare.

     Io e Pancrazio eravamo molto amici e lo siamo rimasti per sempre, fino alla sua morte, tenendoci in qualche modo in contatto. Negli ultimi anni divenne abbastanza frequente lo scambio di lunghissime telefonate. Aveva nostalgia, voleva sapere di Tricarico, ma non è mai tornato in Italia. La morte del fratello e di Peppe Giannotta, il magistrato, altro suo carissimo amico, col quale era rimasto costantemente in contatto, gli aveva reciso importanti legami con Tricarico. Gli ero rimasto solo io. Ci rivedemmo alla fine del 1986. Mia moglie e io avevamo fatto un viaggio negli USA, di cui non lo informai. Erano giorni di festa, non avevo idea quanto fosse precisamente lontana da New York la località in cui abitava, Totowa, e non volevo creargli problemi. Ma un giorno, percorrendo un’autostrada del New Jersey, vidi un’uscita per Totowa. Mi fermai alla località successiva, Caldwell, gli telefonai e mi raggiunse.

La notizia della sua morte mi giunse improvvisa. S’era ammalato un paio d’anni prima d’un male pesante, ma s’era rimesso e mi diceva di stare bene.
Feci telefonicamente le condoglianze alla sorella Filomena e parlammo a lungo, oltre un’ora.

 

5 Responses to Vecchie cronache e memorie: STORIE DI EMIGRAZIONE E STORIE CONNESSE

  1. Angelo Colangelo ha detto:

    Caro Antonio,
    ho letto con grande interesse il tuo racconto sella saga della famiglio Desopo, come sempre avvincente e istruttiva anche per la sapiente contestualizzazione storica dei fatti.
    In questo caso il tuo scritto mi ha molto emozionato per una duplice ragione. Innanzi tutto, perchè il temma dell’emigrazione transoceanica mi sta molto a cuore, perchè ha toccato da vicino anche la mia famiglia. Pensa che la mia nonna paterna vide emigrare in America una sorella e ben tre fratelli, che non tornarono mai più in Italia. Con loro mio padre mantenne solo un rapporto epistolare, come faccio io adesso con un suo cugino, che non ho avuto il piacere di conoscere di persona ma con il quale ho stabilito un rapporto di cordiale affettuosità.
    L’altro motivo della mia emozione è che il tuo racconto riguarda anche Giuseppe Desopo, che fu mio professore di educazione fisica al liceo di Potenza tra il 1964 e il 1967. Lo ricordo come una gran brava persona, comprensiva ed umana.
    E, allora, grazie per questa altra chicca, che hai voluto riproporre sul tuo blog e buona giornata.
    Angelo

    • Antonio Martino ha detto:

      Caro Angelo,
      La mia è una storia simile alla tua, anzi più stretta. Mia madre,che era l’ultima, nata nel 1899, di non ricordo quanti figli, ebbe 3 fratelli emigrati in America, tra cui il primogenito che lei non ha mai conosciuto, ma col quale ci fu un rapporto epistolare, che io poi “ereditai” nell’immediato dopoguerra con un figlio che conosce benissimo l’italiano. Poi ci siamo conosciuti, mio cugino è venuto in Italia, mio ospite a Ferrara, e io sono stato suo ospite in America. La nostra comunicazione si è quasi interrotta qualche anno fa sia perché oramai siamo due vecchi, mio cugino ha 4 anni più di me, sia perché lui, già democratico, divenne “fanatico” sostenitore di Trump. Tra noi parlavamo di tutto e ci confrontavamo su tutto, ma era impossibile confrontarsi sulle posizioni di quello psicopatico di Trump. Quando ci fu l’attacco a Capitol Hill, gli scrissi: Salvate l’onore dell’America e lui, deludente, rispose: Povero Trump! Buona giornata, Antonio

  2. Rocco Albanese ha detto:

    Stupendi questi stralci di storia vissuta. Sarebbe interessante se avessi ricordi anche sul Sud America, in particolare l’Argentina.

  3. Angelo Colangelo ha detto:

    Ho dimenticato di scrivere che a Newark operarono alcuni sacerdoti stiglianesi, tra i quali Mons Felice Dipersia, che negli anni Venti, venuto in Italia, accolse l’invito del Vescovo Delle Nocche e finanziò l’istituzione dell’asilo infantile, che portò il suo nome

    • antonio-martino ha detto:

      Conosco la storia di Mons. Dipersia. Dipersia, come certamente sai, è la famiglia di mia cognata, stiglianese.

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