IMMAGINANDO DI TORNARE A TRICARICO A TROVARE IL TEMPO PASSATO
Dove va il tempo che passa? Non la si prenda per una domanda peregrina. Forse un tempo separato dal presente non esiste. Forse: la parola non nega e non afferma, apre una possibilità. Sappiamo che, durante una passeggiata a Princeton, Albert Einstein chiede al matematico Kurt Gödel, uno dei più grandi logici di tutti i tempi, «Dove va il tempo che passa?» La domanda di Einstein costituisce il titolo di un libro del matematico Werner Kinnebrock, divulgatore scientifico di successo e autore di diversi libri su argomenti analoghi.
Nel 2005 la «Junge Akademie» di Berlino ha bandito un concorso sul tema «Dove si trova il tempo». Le risposte fornite dai partecipanti furono più di 600. Quella di una bambina di quarta elementare è stata: «il tempo si trova nelle cose che abbiamo fatto». Una signora anziana era invece convinta che il tempo rimanesse imprigionato nelle pieghe della pelle di ognuno. La domanda presuppone, e le risposte confermano che il tempo si trovi da qualche parte, che c’è un tempo passato separato dal presente.
Immaginando di tornare a Tricarico percepisco misteriosi segni della separatezza del tempo passato dal tempo presente. Ci sono luoghi che favoriscono particolarmente la percezione. Primo su tutti: il cimitero. Poi: il pozzo di monsignore, lo scalone di Molinari, la fontana di Tre Cancelli.
I primi due sono i luoghi dei nostri assembramenti e delle infinite discussioni che spaziavano su tutto lo scibile. Riunioni più ristrette sullo scalone di Molinari: quattro o cinque seduti sullo scalone che aveva alle spalle una vetrina del moderno negozio di tessuti, e altrettanti all’impiedi.
Le discussioni iniziavano con la massima serietà, dando fondo a tutta la cultura che eravamo in grado di esibire, arricchita in alcuni dalla consultazione della mitica Enciclopedia Treccani dell’avv. De Maria (don Mimì). Era molto, molto accogliente casa De Maria: se non ci fosse stata avremmo avuta una mesta vita. I figli, Giovanni Titina e Paola portavano stuoli di amici e amiche; potevano fare di tutto in qualsiasi luogo della casa, i giochi che volevano, gridare, litigare, prendere libri; l’unica cosa proibita era la scrivania di don Mimì. L’Enciclopedia la consultavamo in vista della tarda serata al pozzo di Monsignore. Lì, dall’esibizione della nostra migliore cultura, si passava al progressivo scivolamento nell’ironia puntuta soprattutto contro Antonio Albanese, comunista in ciascuno dei suoi capelli, in ciascuna cellula del suo cervello e in ciascuna piega della sua pelle, che aveva per fede il marxismo e per Vangelo «Stato e Rivoluzione» di Lenin, e ci spiegava la dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione, fin quando arrivava il momento che ci stufavamo, lo mandavamo a quel paese e ci accanivamo a sfotterlo. Pianse la morte di Stalin, ma rispettammo il suo dolore e ascoltammo il racconto della vita e delle opere del «piccolo padre della tenerezza del mondo» (Neruda); anche Rocco Scotellaro, che non era comunista, sciolse in morte di Stalin versi tra i suoi più belli, nel ricordo del comune mestiere del padre suo e del padre di Stalin:
L’uomo che vide suo padre calzare
gli uomini e farli camminare
imparò da quell’arte umile e felice
la meraviglia di servire l’uomo [….]
Un altro bersaglio contro cui si impuntava la nostra ironia, il nostro sfottò (fatemela dire la parola giusta) era il dandy Pierino Lucchese, figlio del segretario comunale, detto Pierino Settebottoni dall’abbottonatura delle giacche che si faceva confezionare per l’appunto a sette bottoni (a quel tempo l’industria degli abiti confezionati non era sorta o, per lo meno, non era arrivata in Lucania).
Sul tardi precipitavamo, sciaguratamente, nelle più assurde delle cavolate, a chi la sparava più grossa, incredibile o sciocca. La teoria della relatività di Einstein, della quale non sapevamo nulla, ci forniva il pretesto di elaborare le più assurde previsioni sul destino della Terra e dell’Universo.
Ma chi ora legge questi ricordi, se qualcuno li leggerà, consideri che il pozzo di Monsignore era il nostro mare e la nostra montagna e che il campo di Santa Maria, dove il pomeriggio giocavamo al calcio, impegnava i nostri piedi e non le nostre teste.
Segni diversi, talvolta inquietanti, percepisco alla fontana di Tre Cancelli. C’è stato un tempo in cui Tricarico non era collegata con la stazione di Grassano e con Potenza e Matera. Era isolata, non avevamo biciclette, scooter, non aggiungo macchine per non rendermi ridicolo scrivendo una tale ovvietà.
Per andare a Potenza, o tornare, ci servivamo dell’autobus Potenza-San Chirico Nuovo, che percorreva la via Appia, fermava a Tre Cancelli, svoltando da o verso Fondi e San Chirico. Noi tricaricesi per andare a Potenza, o tornare, dovevamo sorbirci quei dodici chilometri o sperare in un mezzo di fortuna e nel bel tempo. Si parlava, si chiacchierava, si facevano pettegolezzi, ma dodici chilometri erano lunghi.
Le riunioni più lunghe, interminabili fino a quando le palpebre si abbassavano e sognavamo un materasso, si tenevano in particolare attorno al pozzo di Monsignore, in una piazzetta deserta, soffusa della discreta ombra della notte e protetta da un silenzio che lasciava libero campo al canto dei grilli. A tarda ora, una sagoma umana, curva, con la testa affondata nelle spalle, fendeva l’oscurità della piazzetta. Era l’ufficiale postale, don Michele Lauria, detto don Michele La Posta, che per la seconda volta nella giornata compiva il percorso Posta – Casa, che altre due volte, nelle stesse giornate, aveva compiuto in senso inverso. I piedi di don Michele, gran lavoratore, nel corso della sua vita non hanno calpestato altri itinerari. Assistevamo in silenzio al passaggio, sussurrando un timido «buonasera», che non riceveva risposta, e restavamo in silenzio fin quando l’ombra di don Michele non fosse sparita.
Esperienze analoghe alle nostre dovrebbe aver fatto Renzo Arbore, suggerendogli la fantastica avventura della canzone «Il materasso»:
La sedia è l’ideale per chi è molto stanco e vuole riposare,
è giusta la poltrona per chi vuole far salotto e chiacchierare.
E’ comoda l’amaca per restare all’aria aperta a dondolare,
fantastico è il divano per star lì sdraiati avanti alla tivù…
Ma il materasso, il materasso, il materasso è il massimo che c’è
ma il materasso, il materasso, il materasso è la felicità.
Meraviglioso è il prato per guardare il cielo e mettersi a sognare,
è bella anche la spiaggia per potersi addormentare in riva al mare.
E’ ottimo il cuscino se sul morbido la testa vuoi posare,
e vengono i momenti che ti va di sprofondare sul sofà.
Ma il materasso? ….
Titina trova a Tricarico novità e cambiamenti che non le piacciono e non accetta. Preferiva ricordarla com’era. Dopo la morte di mia madre siamo tornati per circostanze del tutto eccezionali; solo due o tre volte tornai da solo.
L’ultima volta tornammo in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria a Gilberto Marsellie e di un riconoscimento a Giovanni, fratello di Titina. Non ci sarà un’altra occasione, il peso degli anni ci impedisce di tornare.
Lo dicevo a Titina: a Tricarico bisogna avere occhi e cuore per vedere il tempo passato, che lì c’è, e nei figli gli amici che non ci sono più; bisogna separare il tempo e lasciare il presente a Ferrara.
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Il tempo, irreversibile come la morte. Sembra un concetto lugubre, ma purtroppo è la realtà. Chi ha vissuto tante scomparse dei propri cari ( e quindi riguarda tutti)ne prende coscienza e segna il passaggio ad una visione diversa della propria vita. Si diventa “grandi”. Grazie Tonino dei ricordi che narri, e mi inorgoglisce l’ affermazione di vedere nei figli gli amici perduti. La domanda che mi pongo sempre è se saremo all’altezza dei nostri padri e zii… soprattutto quando guardo mia figlia..
Carissimo Antonio, è un privilegio sentirti raccontare!
Ingaggio da un bel po’ un duello con il Tempo, tanto più pervicacemente quanto più consapevole che ne uscirò sconfitta. Doveva essere bellissimo vivere a Tricarico con amici come voi!
Sarebbe stato più bello il mio tempo passato se ci fossi stata anche tu