L’Armistizio dell’8 settembre 1943: Quando le guerra era finita … caddero piogge di bombe
A Tricarico, sul fare della sera di quell’8 settembre 1943, si diffuse in un baleno la notizia che la guerra era finita. Misteriosamente, perché mancava la corrente elettrica e non funzionavano la radio né il telefono e il telegrafo. Qualcuno disse che la notizia l’aveva appresa don Tommaso Gigli, ascoltando la radio a pile nel suo casino dove ancora soggiornava con la moglie Paola. Nessuno si è mai chiesto se nell’estate del 1943 esistevano radio a pile, che nessuno aveva mai viste.
Impazzimo di gioia. Antonio Trufelli lasciò sbrigliare tutta la sua fantasia normalmente senza freni.
Mia madre piangeva di gioia, non riusciva a frenarsi.
Appena poche ore dopo i festeggiamenti per la fine della guerra su Potenza … caddero due tremende piogge di bombe. Catastrofi e cataclismi avrebbero ancora per due anni funestato il mondo intero.
Il racconto dell’Uva puttanella di Rocco Scotellaro rende plasticamente la situazione: l’incipit del quinto capitolo della parte seconda è categorico: «La guerra era finita». Quindi, secondo l’analisi di Rosalma Salina Borello in A giorno fatto per la presentazione del “romanzo”, come lo chiamava Rocco, comincia a farsi da sé un racconto di guerra come cataclisma e come spettacolo «risultato di un continuo sforzo di adeguamento alle strutture psicologiche ed espressive dell’ambiente contadino, al suo modo di vedere la realtà e di esorcizzarne, familiarizzandoli, gli aspetti più paurosi e negativi. Ma c’è qui qualcosa di più: il quadretto finale, con i viandanti stesi sotto gli alberi a «godersi» i bombardamenti, dal tono assurdamente idillico (che potrebbe far pensare a una scena di Picnin in campagna di Arribal) pone in risalto, come meglio non si potrebbe, la condizione di totale isolamento dei contadini meridionali, per i quali la guerra si riduce a nient’altro che a uno spettacolo, per quanto terribile ed agghiacciante possa essere».
(Pic-nic in campagna è una piéce dissacrante del 1952 di Fernando Arrabal – drammaturgo, saggista, regista, poeta, scrittore, pittore spagnolo: Una famiglia va a celebrare un pic-nic su un campo di battaglia (notare l’uso ambiguo della parola campagna: i pic-nic si fanno in campagna, ma questa è campagna di guerra), dove il figlio, soldato, è impegnato in guerra. Con un ombrello si difendono dai proiettili. Il figlio cattura un prigioniero, di cui non sanno che fare.
I due nemici hanno la stessa idea sulla guerra. Emerge piano piano la presa di coscienza del pacifismo contro le guerre che vogliono gli altri).
Io stesso ho fatto esperienza della guerra, intendo della guerra tradizionale (la seconda guerra mondiale) come cataclisma e spettacolo insieme: spettacolo come autodifesa esorcistica e cataclisma come portato proprio d’ogni guerra.
Frequentavo la prima media a Napoli, ospite di un mia zia. Gli aerei inglesi, in media tre-quattro notti la settimana, compivano incursioni sulla città. Io e mio cugino di soppiatto uscivamo dal rifugio e, dal giardino del condominio, ci godevamo lo spettacolo del fuoco della contraerea e dei fari che scrutavano il cielo. Ci proteggevamo … stando sotto una tettoia, avendo in testa, a mo’ di elmo, un catino, una pentola. I grandi, impegnati a spettegolare, specialmente le donne, per esorcizzare la paura, quando la violenza del fuoco della controaerea diminuiva o a recitare giaculatorie, quando si faceva intensa … non badavano a noi. L’attesa di vedere un aereo catturato dalla luce di un faro, come una falena, e abbattuto, i piloti lanciarsi col paracadute, era eccitante, ma non fu mai soddisfatta.
Di notte la guerra si presentava come un gioco, l’indomani, lungo il percorso in tram verso la scuola, morti di sonno, vedevamo talvolta distruzioni provocate dal bombardamento, macerie sotto le quali forse c’erano cadaveri.
Morti di sonno: quando c’era un bombardamento notturno (tre o quattro notti a settimana) a scuola si saltava la prima ora, ogni altra assenza non era giustificata. Era poca un’ora, ma la guerra è guerra.
A Potenza il bombardamento prese di mira la caserma d’artiglieria che fronteggiava la villa comunale e la stazione di Potenza superiore, colpendo duramente anche il vicinissimo rione Santa Maria, che si trovava in mezzo ai due obiettivi strategici.
Qualche ora dopo, verso le dieci del mattino, Potenza subì un più terribile e sconvolgente bombardamento da parte di diverse squadriglie di fortezze volanti.
Quell’inferno di bombe inghiottì in un orrendo buco nero, in cui non si è mai riusciti a penetrare, due giovani tricaricesi, fratello e sorella, più o meno della mia età. Li conoscevo. Si chiamavano Peppino e Maria Carmela Mileo. Il soprannome della famiglia, che come d’uso la rendeva riconoscibile, era Coppelascionta.
Dei fratelli Mileo non si è mai saputo niente. Spariti. Un “indovinatore” speculò sopra.
Rocco Scotellaro ha raccontato questa tragedia in una pagina sconvolgente e avvincente del quinto capitolo della parte seconda dell’Uva puttanella. Leggetela.
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