Angelo Colangelo: Partire e non morire
È, «il paese», una dolce ossessione, che non ci abbandona. È un grumo di gioie e dolori, che, premurosamente conservato dentro il fragile guscio dell’anima, diventa lievito di storie e memorie.
Ne ho puntuale e autorevole conferma ogni volta che mi capita di ritornare su brani di opere, che mi sono particolarmente care. La ragione è facile da comprendere, perché, come ci ricorda il grande scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, tu «potrai conoscere lingue e paesi, ma il tuo luogo di nascita, la terra che ti ha accolto, il tetto che ti ha dato riparo, le persone che ti hanno amato, le mani che ti hanno preso per darti il seno, il vento che ti ha regalato un po’ di fresco in estate, l’albero che ti ha fatto ombra, tutti loro non ti dimenticheranno, ovunque tu ti trovi».
Fra gli autori, con cui mi piace intrattenermi di tanto in tanto, vi è Giorgio Torelli, il quale da molto tempo mi fa compagnia con la sua incantata e incantevole scrittura. Ancora ricordo le sue interessanti note domenicali apparse in anni ormai lontani su Il Giornale di Montanelli e le indimenticabili pagine del suo affascinante romanzo “La Parma voladora”. L’immarcescibile giornalista e scrittore parmigiano ama ripetere ossessivamente che a Milano, dove ha messo le tende da oltre mezzo secolo, gli succede che “ogni mattina si sveglia parmigiano”.
Il sentimento di appartenenza e il viscerale amore per la città natale di Torelli mi commuove e fa parte della geografia dei miei sentimenti. Per questo è inevitabile che le sue parole mi siano rimaste incollate nell’anima. Non ho, dunque, nessuna difficoltà ad ammettere, anzi ad affermare con compiacimento ed orgoglio, che «ogni mattina io mi sveglio stiglianese».
Ciò non vuole significare che io nutra indifferenza o, peggio ancora, ingratitudine per Parma, la città che mi ospita. Non dimentico, d’altronde, quel che diceva il caro don Lisander nel suo immortale romanzo, dove si parla di promessi sposi, sostenendo che la patria è dove si sta bene. Che è indiscutibilmente vero. Ma è altrettanto vero che il cordone ombelicale con il paese di origine è impossibile reciderlo. Per fortuna, mi dico, perché è questo l’unico modo possibile di partire e non morire. Almeno così a me pare. Anzi, ne sono proprio convinto e non esito a dirlo, talvolta sommessamente, spesso ad alta voce.
Insomma, per farla breve, qui ed ora proclamo ancora e in maniera definitiva la mia “stiglianesità”. “Che significa?”, potrebbe chiedere qualcuno. È presto detto. Significa che, grazie a questo sentimento forte e insopprimibile, da tre lustri le mie giornate nella città ducale si riempiono e si colorano di fatti, luoghi, persone evocanti il “paese”. Così come mi accadeva in anni lontani, quando, per motivi di studio o per altro, vivevo a Empoli, a Potenza, a Napoli o a Roma.
Sono sicuramente quei fatti luoghi persone che danno un senso alla mia vita che avanza. Mi spiego meglio. Si tratta di immagini e visioni che, con sempre maggiore frequenza, aggallano dal pozzo della memoria, come capita a tutte le persone anziane. Davanti agli occhi degli anziani, si sa, si spalanca la strada larga e comoda dei ricordi e della nostalgia, mentre più stretto e più breve si fa, giorno dopo giorno, il sentiero dei sogni e delle speranze.
Non di rado ritornano le immagini, non ancora sbiadite, dei giochi frenetici che, soprattutto d’estate, riempivano di grida festose il cielo della “Villa”, incendiato da rossi struggenti tramonti, mentre le strade si popolavano di contadini, che tornavano stanchi e silenziosi dai campi con asini, pecore, capre.
Sul far della sera gli artigiani, intanto, chiudevano le botteghe, e, prima di rientrare a casa, cercavano un ristoro dopo le quotidiane fatiche e provavano a scacciare i brutti pensieri, che mai mancavano, nelle cantine di zә Peppe Oramai, zә Achill’ Frǝséjǝnǝ o zә Giammattést Attonì. Prima, però, provvedevano a passare da kәmbo Nәcóla Prәcәcchìdd, per acquistare un pacchetto di trinciato forte, o cinque “alfa”, o un mezzo sigaro toscano. Rigorosamente a credenza, ҫa va sans dire, ossia con un “pagherò quando potrò”. È altrettanto superfluo precisare che l’impegno si basava sulla fiducia di tutti e sulla comprensione di uno solo.
Sempre alla “Villa”, ma la stessa cosa accadeva in molti altri rioni del paese, familiari erano le scene delle donne che, a loro volta, pigramente si congedavano fra loro. Alzandosi lentamente dalle sedie disposte in semicerchio davanti all’uscio di qualche casa, scioglievano i lunghi raduni pomeridiani scanditi da fitti chiacchiericci sul più e sul meno. Chiacchiere di vicinato, insomma.
Le mamme invitavano allora a rientrare i loro figli, i maschietti in particolare, che vivevano intensamente la loro vita spensierata per strada ed erano più liberi di allontanarsi da casa. L’aria si riempiva di femminee voci accorate e variamente modulate. All’inizio erano richiami amorevoli e zuccherosi, pronunciati con toni dolci e pacati, quasi sussurrati. Nel giro di pochi minuti, però, come in un crescendo rossiniano, quegli inviti sommessi diventavano urla minacciose impostate su note sempre più stridule ed acute.
Nel coro disarmonico si distingueva la voce inconfondibile di zia Peppenella, una donna abbastanza in carne e molto simpatica, che viveva con il marito allampanato e i sei figli in un sottano di trenta metri nel cuore della “Villa”.
Lei iniziava la litania delle invocazioni a uno dei figli con un dolce e suadente “Pinù, rətəràtə, a màmm, kà jé fàtt tard…”. Ma dopo una breve serie di vuoti passaggi intermedi, via via sempre più incalzanti e sostenuti, gli inviti di zia Peppenella finivano immancabilmente con parole poco rassicuranti: “Fracətó, non t’abbùtt màjə də scé fəscènn … dìggə scəttà lə uəlénə da ngànn!”. Insomma, la buona donna, dopo aver usato toni sommessi e melliflui per invitare il renitente Pinuccio a fare ritorno a casa, gli rimproverava di non essere mai sazio di vagabondare e gli augurava … di vomitare veleno, se non rientrava immediatamente.
Io non sono mai stato raggiunto dalla voce di mia madre per ricordarmi che era l’ora di rientrare a casa. Non lo faceva, non solo perché dalle prime luci del giorno e fino a notte inoltrata era assorbita dall’impegno della conduzione del piccolo albergo di famiglia, ma anche perché era troppo dolce e indulgente.
Il compito, perciò, toccava a mio padre, che non usava parole a tale scopo, ma si serviva di un fischio. Era un fischio prolungato e quasi solfeggiato, noto non solo a me, ma a tutti i “villaioli”, grandi e piccoli. Quel fischio ben modulato era forse retaggio di reminiscenze musicali risalenti al tempo in cui mio padre suonava il bombardino nella banda musicale del paese diretta dal Maestro Peppe “Melfi”. Chissà, non ne sono sicuro. Quel che ricordo bene è che veniva emesso da punti strategici, lacerava l’aria e mi raggiungeva subito ovunque. Sia che mi trovassi nella vicina “Villa” a giocare interminabili partite a calcio, che duravano non meno di quattro ore, e a volte anche di più se era necessario ricorrere ai tempi supplementari, perché magari era intervenuta qualche interruzione per motivi di forza maggiore. Sia che fossi infrattato tra le rocce del Carvutto a “giocare” alla guerra, o sotto il Castello, dove con cugini ed amici attendevo intrepido che da una casa diroccata uscisse il misterioso Monaciello che, stando alla voce del popolo, l’abitava. In ogni caso, quando ci raggiungeva il ben noto e temutissimo fischio paterno, perentorio ed autoritario, non solo a me ma a tutti non restava che precipitarsi, trafelati, verso casa.
Dopo il rientro della prole, le donne, finalmente tranquillizzate, rientravano in casa a preparare cene, che non rischiavano mai di costringere qualcuno a notti rese insonni dalla pesantezza di stomaco. Finiva così per loro un’altra lunga giornata trascorsa nelle quotidiane faccende domestiche.
Soprattutto d’estate, infatti, le giornate, non solo per gli uomini, contadini o artigiani che fossero, ma anche per le donne iniziavano molto presto. Già all’alba si recavano al “fontanile” pubblico per riempire di acqua i loro recipienti e l’operazione spesso comportava, per diritti di precedenza non rispettati, resse e risse furibonde, con alterchi e imprecazioni capaci di coinvolgere avi e discendenti fino alla settima generazione.
Immancabili vittime sacrificali erano i barili, destinati non di rado a un ricovero d’urgenza nella vicina “clinica” di zә Savatóre e zә Gәlàrd Mәdàgghiә, i quali provvedevano alle cure del caso, se appuravano che il danno non era irreparabile, o, in caso contrario, prendevano nota per fabbricarne di nuovi.
Queste erano alcune scene di ordinaria quotidianità che segnavano le giornate nel mio amato e indimenticato paese. Un paese che in quegli anni Cinquanta era un centro popoloso e vitale, tant’è che poté menare vanto di essere simbolicamente la capitale della montagna materana, dopo essere stato realmente nel Seicento il capoluogo della Basilicata.
(1, continua)
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Piccole storie incantevoli.
Ma cos’è questa piacevole ossessione che lega alcuni al paese natale?