Come deduco dai riferimenti scolastici delle mie nipoti, questo scritto fu redatto alcuni anni fa. Non so perché non lo postai.
Lo rileggo per caso e per fortuna, perché non leggo più, o quasi più.
Virginia e Anna leggono molto, sanno scegliere buone letture. Io non sono ora in grado di riprendere con loro il discorso che rimandai, e non c’è bisogno che lo faccia, da sole sapranno che fare.
Devo pure dire che non sono neppure in grado di lasciare la panchina sulla quale mi sono seduto a riposare, nè di sostenere quasiasi conversazione.

Virginia e Anna, le mie due nipoti, frequentano la terza media Virginia e la prima Anna. Quasi 80 anni, 200 chilometri e una guerra mondiale – due epoche – separano la mia frequentazione della scuola media e quella delle mie nipoti.

L’edificio scolastico di Virginia e Anna è a quattro passi dalla loro casa; la mia casa era a Tricarico in Lucania e il mio edificio scolastico, la scòla du Gesù cantata da Aurelio Fierro, a Napoli: tra la stazione ferroviaria di partenza di Grassano – Garaguso – Tricarico  e quella di arrivo Napoli-Piazza Garibaldi c’erano 212 chilometri di distanza. Da circa un anno l’Italia era entrata in guerra e Napoli era bersaglio di frequenti bombardamenti notturni (calcolai una media di quattro bombardamenti a settimana), che svegliavano nel primo sonno, come si dice, e costringevano a rifugiarsi alcune ore in un rifugio antiaereo. L’indomani le scuole aprivano alla seconda ora, che non compensava l’insufficiente o mancato riposo notturno.

Virginia, impressionata dalla differenza tra la mia e la sua scuola media, voleva che ne parlassimo per compararle. Le spiegai che molte e ben altre sono le cose che fanno diverse la sua e la mia scuola media, delle quali sarebbe stato difficile per noi due parlarne, essendo tutt’ e due condizionati dal clima di due epoche incomparabili delle nostre vite. Le consigliai di leggere tra qualche anno il libro che stavo leggendo – Maurizio Bettini, A che servono i Greci e i Romani?L’Italia e la cultura umanistica.

Sulla stessa copertina è reso chiaro che il libro sviluppa, se così si può chiamare, una apologia dei classici.  Si legge: – Se non leggeremo più l’Eneide perderemo contatto non solo con il mondo romano, ma anche con ciò che è venuto dopo. Perdere Virgilio significa perdere anche Dante, e così via. Un cambiamento radicale di enciclopedia culturale somiglia infatti a un cambiamento di alfabeto.

In quarta pagina di copertina si legge: – Sempre più spesso, a chi si occupa di discipline umanistiche – e soprattutto classiche – viene chiesto: «A che cosa serve?» Dietro questa domanda agisce una rete di metafore economiche usate per presentare la sfera della cultura («giacimenti culturali», «debiti» e così via). A fronte di tanta pervasività di immagini tratte dal mercato, però sta il fatto che la storia testimonia una visione ben diversa della creazione intellettuale.

Un aneddoto raccontato da Beniamino Placido all’Autore, riportato nel Prologo del libro, rende ben chiara la tesi:

Nei primi anni Sessanta del Novecento uno scienziato americano si presentò di fronte a un’importante commissione federale per discutere la richiesta di finanziamento che aveva presentata al Governo. La commissione era presieduta da John Pastore, severo e temuto senatore repubblicano del Rhode Island. Dunque lo scienziato cominciò ad esporre il proprio progetto, che riguardava una ricerca di fisica teorica, ma nel bel mezzo della spiegazione Pastore lo interruppe con questa domanda: «Professore, il suo progetto serve a difendere la nostra patria?» Lo scienziato rimase interdetto per qualche secondo, poi disse: «No. Ma serve a rendere la nostra patia più degna di essere difesa».

In questo libro Virginia non avrebbe trovata la verità calata dall’alto, ma il filo della matassa da dipanare per cercare e trovare la sua verità.
In questo libro non si leggeranno mai espressioni del tipo: il nostro paese ha una «identità culturale» squisitamente classica, tantomeno che la cultura italiana ha «radici» greche e latine. Chi leggerà con attenzione e spirito libero questo libro comprenderà quanto ingannevole sia la nozione di «identità culturale» e quanto ambiguo sia il ricorso alla metafora  delle «radici» per definire la pretesa «identità» di un comunità o di un gruppo sociale.

Il libro (un libretto tascabile di 148 pagine) contiene un prologo, al quale ho già fatto riferimento, e 23 capitoli. Non sono «riassumibili»; aprono questioni un tempo inimmaginabili: bisogna perciò leggerli attentamente e fare di ciascuno oggetto di attenta riflessione.

Quando – e se – Virginia e anche Anna leggeranno questo libro, e io non ci sarò più, avranno modo di discutere e ragionare col nonno da ragazze libere e di capire il senso del mio consiglio, il senso del consiglio di un nonno: di un nonno che un suo nonno (di parte sia paterna sia materna) non ha conosciuto.

Carissime Virginia e Anna: Se il latino e il  greco sono lingue «morte» ciò significa che sono “inutili”? Pensateci, datevi una risposta.

 

One Response to NON STIAMO FORSE PARLANDO IL LATINO DI OGGI ?

  1. Maria Paola Langerano ha detto:

    Ti ringrazio, Antonio, per avere citato un testo che acquisterò e leggerò con interesse, a proposito del quale spero di avere l’occasione di scambiare qualche riflessione con te. A presto!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.