TARAS: un racconto di don Mimì
La storia d’Italia – spaccato della “occupazione” piemontese del Sud – nel racconto di un contadino tricaricese -, narrata dall’avv. Domenico De Maria. Taras piacque a Carlo Levi, che ricambiò con l’omaggio di una copia de L’orologio (All’avv. Domenico De Maria ringraziandolo per il piacere provato nel leggere la sua bellissima storia di Taras, con viva cordialità e amicizia. Carlo Levi, Roma, 18 giugno 1950).
Con altri racconti dell’avv. De Maria, padre di Titina, ho pubblicato Taras su un libricino stampato dalla RCEMultimedia. La lettura della lettera lucana di Andrea di Consoli «Il mercato illegale dei reperti archeologici» m’invoglia a riproporre il racconto .
TARAS
«Questa è venuta fuori sotto la zappa insieme ad una pignatta»diceva Cosimo mostrandomi una monetina d’argento,e la pignatta doveva essere una cosa di valore, perchè ci aveva sopra delle figure nere. «La pignatta si è rotta e l’abbiamo lasciata lì. Ho portato soltanto questo pezzetto per farlo vedere a voi, che ne capite». E mi mostrò un coccio, come una crosta di pane, dove erano le teste di alcuni guerrieri con le aste.
«Le figure sembrano di diavoli; -osservò Donato -guardate questo quì, ha anche le corna».Infatti la punta di una lancia, sorpassando la testa di uno dei guerrieri, pareva un corno.«State a vedere che non sia roba venuta dall’inferno; -continuò Donato -anche la moneta ha un diavolo, che va a cavallo sopra un pesce».
La monetina d’argento su una faccia presentava a rilievo la figura del figlio di Posidone, con il tridente, seduto sul dorso di un delfino. Cinque lettere greche T A R A Smi rilevarono che si trattava di uno statere di Taranto, roba di quattro secoli prima di Cristo.
«Questa è roba che porta sfortuna; -insinuò Donato -sarà meglio che la riportiate dove stava. Sono i diavoli che mettono questa roba sotto la terra per farla trovare a noi povera gente per tentarci. Ad andarci appresso c’è da lasciarci la pelle e da perderci l’anima. Se scaverete dove avete trovato la pignatta per cercare il tesoro, finirete per trovare la strada che porta all’inferno e ci troverete prima le ossa di quelli che vi si sono perduti prima di voi. Mio nonno me ne raccontò una, che è capitata a lui, e per poco non ci perdette la vita. Questa, se volete, ve la racconto per non farvi montare la testa e cadere in tentazione».
«Racconta, Donato», fui io a sollecitarlo.
Donato era un narratore molto immaginoso, come tutti i narratori meridionali. Le storie cominciavano dallepiù lontane origini e dalle cause remote e si diluivano nei dettagli più particolareggiati, fino a far perdere il nesso con il tema. Donato si faceva ascoltare con interesse; io ero solito sollecitarlo a raccontare, un pò perchè egli ne aveva piacere, un pò perchè c’era sempre da imparare qualche cosa intorno al modo di sentire e di pensare della nostra povera gente.
«Mio nonno -cominciò Donato -diceva che questo gli capitò molti anni fa, quando egli era giovane, quando da queste parti venne Garibaldi e ci cambiarono il re, ci mandarono bersaglieri e piemontesi per farci la guerra e vennero fuori i briganti per fare la guerra ai piemontesi, ci posero le tasse per pagare le guerre che si erano fatte e le guerre che si facevano ai briganti.
«Fino allora erano i tempi che si poteva vivere e un pezzo di pane non mancava a nessuno. Il bene di Dio si perdeva e tutti quanti campavano almeno cento anni. Con un carlino, che è come dire una lira di oggi, si aveva tanto grano che si poteva mangiare una famiglia per una settimana. Allora i soldi erano tutti di rame di argento e di oro ed ogni soldo era grosso quanto una pezza di caldaia. Ma i soldi allora non bisognavano nemmeno, perchè i contadini, quando erano chiamati a lavorare, facevano i ‘mesaruli’ e stavano a padrone da anno ad anno e ricevevano dal padrone le ‘manicature’: grano, olio e sale, quanto gliene bisognavano, e le scarpe e i calzoni e la lana per farsi fare le calze e le maglie, e di tutto ne avanzava anche per venderne ai merciai. I soldi erano i padroni che si dovevano dar pensiero di trovarli per darne la parte al re ed ai gendarmi. Allora quelli come noi non andavano alla ‘sala’ per farsi mettere in nota per la disoccupazione e non gli chiedevano per lavorare la tessera del sindacato; l’elemosina non la chiedeva nessuno, perchè chi voleva lavorare lavorava e terra da seminare uno ne aveva tanta quanta se ne fidava; erano i padroni che ti venivano a pregare di fare alla parte e ti davano essi il grano per seminare e ti prestavano i muli per arare. Allora come niente il grano usciva delle quindici e delle venti e la terra non aveva bisogno di concime, perchè era sazia come gli uomini e le cose venivano fuori come Dio le benediceva.
«Con i piemontesi e con i bersaglieri vennero quaggiù tutti i guaidi questo mondo. I bersaglieri erano tutti figli di ‘can dell’ostia’ e mangiavano per quattro; rubavano i pollastri e per ogni pollastro si mettevano una penna sul cappello per darsi la boria e per far vedere quanti erano stati buoni a mangiarne. Siccome molti contadini delle campagne non si volevano far rubare i pollastri, venivano spesso alle mani e qualche volta anche alle schioppettate con i bersaglieri e poi, per non farsi arrestare, molta gente si facevano briganti e quando furono in parecchi si scelsero i capi per fare la guerra come si conviene.
«I ‘galantuomini’, siccome non avevano pollastri da farsi rubare, perchè i pollastri li crescevano soltanto i contadini, e siccome erano tenuti sempre d’occhio dai bersaglieri, ebbero paura dei piemontesi e fecero colleganza con loro. Ma il popolo era tutto con i briganti, che erano poi quelli del popolo stesso, ed allora la guerra fu tra il popolo da una parte ed i bersaglieri con i galantuomini dall’altra parte.«Ma poi i briganti furono tutti o imprigionati o uccisi, perchè è sempre il pesce grosso che si mangia il più piccolo, e le loro teste venivano appese alle ‘VARRE’, sulla ‘Tempa dell’Impiso’, per far paura agli altri che erano in paese.
«Da allora la maledizione ci è piovuta addosso e la maledizione ce l’hanno portata i piemontesi. Hanno messo l’odio tra di noi, mettendo i galantuomini contro i contadini e i contadini contro i galantuomini, mentre prima eravamo tutti una cosa sola, ci volevamo bene come cristiani, poveri e ricchi, e ci davamo una mano l’un l’altro, quando ce n’era bisogno.
«I bersaglieri poi andarono via e si portarono tutti i soldi di rame, di argento e di oro e lasciarono a noi le carte con i ritratti del re del Piemonte, che poi non ci valevano a niente, perchè le dovevamo riconsegnare agli agenti delle tasse per rimandarle indietro al re, che le aveva mandate a noi solo per farci conoscere la faccia che aveva.«I piemontesi avevano spiato come stavano le cose da noi e, quando tornarono lassù, dissero al re che da noi c’erano molte pecore e con la lana ci facevamo noi stessi gli abiti, i cappotti e le coperte; allora in ogni casa le donne filavano la lana ed avevano il telaio per farsi i panni. Il re, saputo questo, mandò quaggiù altri piemontesi, che non erano più bersaglieri ma vestivano da cristiani come noi, con un sacco di quelle carte con il suo ritratto. I piemontesi prendevano tutta la lana delle nostre pecore per portarsela lassù e ci lasciavano i ritratti del re, perchè noi ce lo dovevamo mettere bene in testa cheil re era lui e noi eravamo roba sua.
«Allora un nostro galantuomo, che era amico del re e che era stato anche lui a farlo re nostro, andò dal re per dirgli che, se toglieva la lana a noi di quaggiù, le nostre donne avrebbero finito di starsene a casa afilare; e i nostri telai che ce ne dovevamo fare, che ce n’era uno per ogni casa? Il re rispose: ”Vedete, voi di laggiù siete tutti dei briganti ed i briganti vestono con le giacche di ‘pannetto’, con i cappotti di ‘quadragliè’ e con i cappelli a punta con la penna, che vi fate voi stessi. E’ una cosa che mi fa schifo e mi fa vergognare, perchè anche in America vi fate conoscere come briganti per quei vestiti che vi fate voi. Perciò bisogna che i pannetti e i quadragliè non ve li dovete fare più voi, ma veli farò fare quassù dai miei piemontesi e dai lombardi e dai toscani, che sanno fare i panni più leggeri e più civili ed hanno le macchine per farli, e li manderò laggiù a voi belli e fatti. I telai vostri ve li potete mettere al fuoco, tanto sono roba tutta tarlata. Le vostre donne, se hanno voglia di passare il tempo, possono andare al forno e alla fontana a fare le chiacchiere con le comari, tanto le chiacchiere non fanno male a nessuno, mentre i quadragliè fanno disonore all’Italia. E a voi uomini, se vi piace fare i briganti, ci penserò io a farveli fare. Vi chiamerò per quattro anni al mio servizio, ad uno ad uno tutti quanti, vi darò il fucile, metterò anche a voi i cordoni e il cappello di bersagliere e vi manderò a fare a schioppettate con gli austriaci e con i turchi”.
«Fu così che mio nonno fu chiamato anche lui a fare il brigante per conto del re e andò a fare a schioppettate con gli austriaci. Quando tornò a casa sua, dopo quattro o cinque anni, trovò che le cose da noi erano cambiate ancora in peggio. I galantuomini non volevano dare più le loro terre ‘alla parte’, come prima, e non volevano più sapere di prestare i muli per arare e di dare il grano per seminare, perchè dicevano che il grano essi non lo potevano più tenere da anno a anno, ma lo dovevano vendere subito, perchè ogni due mesi il re voleva la sua parte di soldi e non era più come prima, quando il padrone pagava in una sola volta quello che doveva al re e sceglieva lui il tempo quando voleva pagare, dopo la raccolta nuova. I padroni dicevano che, se i contadini volevano la terra, dovevano essi trovarsi il grano per seminare e i bovi e i muli per arare e poi quello che si faceva bisognava fare una parte il padrone e una parte il contadino, ‘a sacco parato’, ovvero il contadino doveva dare al padrone un tanto di grano all’anno per ‘terraggera’ e se la doveva vedere tutto lui.
«Siccome mio nonno non aveva grano per seminare e muli per arare, dovette anadare a giornata a lavorare per conto dei padroni e fare come facciamo noi, a guardare ogni mattina il tempo che fa, che “se chiove e mena vinti, zappaterra statti abbinti”.«E fu una volta che stava a zappare a giornata che mio nonno trovò sotto la zappa, tale e quale come è capitato oggi a Cosimo, una pignatta con le figure nere e un soldo, che non si sa che cosa i diavoli ci avevano scritto sopra. Il padrone, che sorvegliava gli uomini, quando vide quella pignatta, li fece subito smettere di zappare, prima che finisse la giornata, e disse che non c’era più da zappare sopra quella terra. Ma gli zappatori avevano capito che quello lì voleva prendersi il tesoro solo lui senza farne parte a nessuno; se la intesero fra di loro e la notte stessa tornarono tutti quanti senza il padrone per cercare il tesoro.
«Zappa e zappa, il tesoro non voleva venire fuori. Ad un certo punto mio nonno si sentì male, gli venne da fare un bisogno e andò dietro una siepe. Anche gli altri, uno dopo l’altro, avvertirono dei dolori di pancia e andarono chi da una parte e chi dall’altra a fare i loro bisogni. Fino alla mattina continuarono a zappare, chi in un punto e chi in un altro, intorno al posto dove avevano trovato la pignatta, e finalmente ognuno trovò una grossa pietra, dove sotto ci dovevano essere i tesori. Ma, quando stavano per muovere le pietre, avvenne un fatto che fece a tutti quanti rizzare i capelli per la paura. Dietro la siepe, dove mio nonno aveva fatto i suoi bisogni, si vedeva una cosa che si muoveva e con due occhi rossi come fiamme. -Gesùmmaria! -gridò mio nonno e si fece subito il segno di croce. Allora tutti quanti sentirono un lagno, come di uno che si torcesse di rabbia, e videro dietro la siepe un diavolo, un vero diavolo nero cion la coda lunga e le corna. Quando il diavolo sentì i nomi di Gesù e di Maria rotolò terra terra, se la svignò dietro i cespugli e si andò a nascondere nel bosco.
«Meno male che mio nonno aveva fatto il segna della croce, se no chi lo sa che cosa sarebbe successo di quella povera gente, che cercava il tesoro!
«Mio nonno non volle più scavare, ma gli altri vollero continuare e…. sapete che cosa trovarono, quando furono alzate le pietre ?….. ossa e teste di morto, ossa che non si potevano contare; le ossa di quelli che avevano prima di loro fatto la stessa cosa.
«E sapete che cosa avvenne dei quattro zappatori che avevano fatto quel lavoro ? Tre morirono tutti e tre prima della Santa Pasqua e solamente mio nonno se la cavò con una diarrea a sangue, che gli era durata molti giorni. La fortuna sua -concluse Donato -fu che era stato lui a dire: -Gesummaria !-e si era fatto il segno della croce e non aveva voluto continuare a scavare».
Cosimo mi domandò se quelle figure sul coccio e sulla moneta erana veramente i diavoli. Cercai di spiegare che la figura sul coccio rappresentava un guerriero dei tempi antichi, quando da queste parti vennero dal mare certi popoli, che si chiamavano i Trezzeni ed erano come i greci di oggi; e quella della moneta era il figlio di un dio, che comandava sul mare e che era venerato dagli antichi quattrocento e più anni prima che Gesù venisse sulla terra.
«Lo senti ? … -esclamò Donato, dando una palmata sulle spalle di Cosimo – lo dice anche lui che è la figura di un figlio di dio, che non è Gesù Cristo …. e sono diavoli…».
«Allora sarà bene, come dici tu, -disse Cosimo-che riporti queste cose dove stavano e mi acquieti ogni pensiero».
«Puoi dare a me, se non ti dispiace, -dissi io -questi oggetti e ti consiglio anch’io di non tentare di cercare un tesoro; ci potresti trovare tutt’al più anche tu qualche osso e qualche pignatta e non ne caveresti la fatica».
Cosimo mi lasciò volentieri quelle tentazioni in cambio di un pacchetto di tabacco. Nell’andar via lo vidi sulla porta farsi un segno di croce, ma non gli sentii dire: -Gesummaria! -ma certamente lo aveva detto mentalmente.
Domenico De Maria
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