Andrea Di Consoli nella lettera lucana di oggi parla di Rocco Giorgio, veterinario dell’umile Lucania di cui ritiene che bisognerebbe valorizzare di più la sua preziosa esperienza umana e professionale, perché è uno dei pochi a sapere di cosa parliamo quando parliamo di civiltà contadina. Pessimisticamente però si chiede quale spazio può avere un uomo serio come Rocco Giorgio in un’epoca di mode effimere.

Rocco Giorgio è il contrapposto perfetto dei veterinari di Tricarico del mio tempo, epoca anche e specialmente quella, a suo modo, di mode stravaganti più che effimere. Evoca molte storie, di contrapposto appunto. Ha scritto anche Rocco Scotellaro nell’Uva puttanella di quella mattina in cui due giovani canadesi giunsero su una jeep a liberare Tricarico, racconto denso di significati politici.
Quella mattina, io c’ero, ricordo che c’era anche don Raffaele Ferri, il primo dei veterinari che mi viene in mente. Alto e possente, il sudore gli colava sul bel cranio tondo e pelato mentre, sull’attenti, gridava a ripetizione «Viva i Liberatori!».
Don Raffaele era stato sempre presente, con la sua elegante divisa di capomanipolo (tenente) della MVSN (milizia volontaria per la sicurezza nazionale) al sabato fascista. Ma era un brav’uomo, con le sue eccentricità.

Non aveva figli, abitava in un palazzotto di via Rocco Scotellaro (allora via Roma) e la mattina chi passava sotto casa sua lo sentiva declamare versi sconosciuti con  voce calda e tonda e tonalità modulate. Don Raffaele aveva una laurea in veterinaria, l’unica che avrebbe potuta conseguire col suo diploma di geometra, che non gli permetteva di accedere a una facoltà umanistica, la sua passione. La mancata conoscenza del latino e del greco il suo cruccio. Della laurea in veterinaria si vergognava. Di fare il veterinario neanche a pensarci. Rinunciò a presentarsi al concorso per il posto di veterinario condotto, lasciandolo libero a don Vincenzo Benevento, che aveva sposato una sua parente, donna Mimma.  

Donna Mimma era l’idea di bellezza statuaria fatta persona. Sposò a diciassette anni, in prime nozze, un farmacista di Campobasso al quale diede dieci figli in poco più di dieci anni e, dopo questi parti, lei era rimasta più bella di prima, con la sua siluetta intatta, solo rimodellata come una pesca matura nelle spigolosità acerbe della verde età, e il viso illuminato da una viva luce di soddisfazione. Il farmacista naturalmente morì.
Donna Minna, vedova, tornò a Tricarico. Non aveva ancora compiuto trent’anni. Corteggiatissima dai molti bei partiti della Tricarico di quel tempo (giovani rampolli che vivevano di sostanziose rendite), si dovette alla fine decidere o adattare a sposare don Vincenzo.

La figlia che più le rassomigliava in bellezza era Pupetta, studentessa di medicina. Una ragazza che allora studiasse medicina era, se non uno scandalo, una stravaganza. A mia conoscenza c’era soltanto un’altra ragazza in Basilicata che seguisse gli stessi studi. Si chiamava Lucia Cardillo ed era di Palazzo San Gervasio, il paese d’origine della mia famiglia e della famiglia di Lina Werthmüller, la quale nel film I Basilischi racconta la storia scandalosa per i paesani ed esemplare per la la Werthmüller di Lucia Cardillo. Lucia divenne medico ed esercitò con onore la professione nel paese dei basilischi. Il suo paese le ha dedicato una via.

Anche Pupetta completò gli studi ed esercitò la sua professione a Roma. Pupetta tornava a Tricarico, per le vacanze, con cortei di ragazzi ospitati nella bella spaziosa casa alla Porta del Monte, sul piazzale dove veniva posato il vecchio garibaldino, che Rocco Scotellaro ricorda in una bella poesia. Agli amici che Pupetta si portava si aggiungevano i giovani tricaricesi di belle speranze ed era uno spettacolo vederli passeggiare su e giù in piazza, Pupetta al centro e quattro o cinque ragazzi a un lato e altrettanti all’altro lato. Noi ragazzini di alcuni anni più giovani fantasticavamo su Pupetta, piangendo sulla nostra triste sorte di nati troppo tardi.
La sorella di Masrio Trufelli, Michelina, era la migliore amica di Pupetta. L’incontro di due opposti, non sul lato della bellezza: sofisticatissima la bellezza di Pupetta, semplice e pulita, nessuna sofisticheria quella di Michelina. Mario ne approfittava per godere della vicinanza con Pupetta.

Don Raffaele poteva vivere comodamente con le rendite delle sue campagne, di cui non si curava, e comodamente coltivò i suoi interessi culturali. Per il rimpianto del latino e greco non studiato si fece stampare Zooiatra sul suo biglietto da visita e trascorreva le mattinate nell’Antro dell’Orco – come lui chiamava una specie di mansarda ricavata nella soffitta della sua casa – a leggere ad alta voce dalla Storia della letteratura universale di Camillo Prampolini, per impararli a memoria, versi di poeti di civiltà lontane nel tempo e nello spazio. Era dunque uomo molto erudito, don Raffaele, ricco di una erudizione, che poteva sfoggiare e dispensare a piene mani nel suo girovagare per il paese o per il contado, sempre in compagnia di un cavalla, che cavalcava o teneva per la briglia. Anche al bar, a duecento metri dalla sua casa, don Raffaele andava con la cavalla per concedersi una partita di tressette e il lusso di declamare tutte le regole di Chitarrella, che – assicurava – conosceva alla perfezione anche il grande filosofo Benedetto Croce. Non mancava a un ballo, sudava come una fontana e non si perdeva un solo giro di danza finché, una alla volta, non avesse ballato con tutte le fanciulle presenti. Riposava un solo giro e riprendeva instancabile.

 

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