Andrea Di Consoli, nella sua lettera lucana di oggi 1° settembre racconta un pranzo sotto il sole rovente al ristorante Tre Cancelli di Tricarico e di aver mangiato molto e, orrore!, evitato di bere.

Ora, ripropongo in suo onore una mia Introduzione a una ricerca sul calcio tricaricese, dove si chiama chiamai in soccorso Albert Camus, Enrico Remmet, Pier Paolo Pasolini, Giacomo Leopardi, Umberto Saba, Nick Horby, Adriasno Sofri, Biavati, Rivera, Mazzola, Maradona, Ezio Vendrame, Jorge Valdano, Osvaldo Soriano, Livio Paladin, George Yeah e, per finire, sicuro di averne scordato qualcuno, papa Francesco.

L’Introduzione è troppo lunga e Di Consoli non mi leggerà. Francamente non so se sbagliai io a farla così lunga o se sbaglia lui a non leggermi.

Venni a sapere dell’esistenza di un progetto, allo stato pre-embrionale, per una ricerca sulla storia del calcio tricaricese e ricordai ai ricercatori che il calcio non significa semplicemente tirare calci a una palla di pezze o a un pallone. Albert Camus disse: «Tutto quello che so della vita, l’ho imparato dal calcio». Si tratta di una traduzione in italiano semplificata. La frase originale sarebbe: «Tutto quello che so della morale e dei suoi imperativi l’ho imparato sui campi di calcio».

La storia del calcio tricaricese inizia quando ragazzini d’ogni ceto sociale, che tutti o quasi non ci sono più, affratellati, tiravano calci a palle di pezze o a un pallone in ogni spiazzo utile: a Santa Lucia, nel largo successivamente invaso dall’edificio scolastico e dalla littorina, nella piazzetta del vescovado, nella petraia di Santa Maria. Racconto quel nostro tirar calci con la fedele descrizione dello scrittore torinese Enrico Remmert, memoria quasi mitica del calcio delle origini in Italia e nel resto d’Europa e nei Paesi del Sud America, dove in ogni spiazzo o largo si vedevano ragazzi tirar calci. Remmert ricorda nel racconto «Tutti contro tutti, portieri volanti»: « A quei tempi le partite avevano una durata illimitata: fino a quando il pallone si perdeva o si bucava oppure fino al tramonto. Solo allora si tornava a casa da madri urlanti e preoccupate, con le strade buie ma con in corpo quella strana contentezza che si ha solo quando si è sfiniti». Le nostre mamme erano preoccupate per le scarpe: l’unico paio di scarpe che avevamo, di cui il calcio affrettava velocemente l’usura. Ipocritamente, invece, fingevano di essere preoccupate della nostra salute, della bronchite che, sudando, ci saremmo beccata. Le origini, per il vero, ci riportano anche alle fitte sassaiole che si scambiavano le tifoserie di Tricarico e di Grassano, con immancabile corollario di teste rotte e di sangue. E questo era un serio motivo di preoccupazione.

Saltellando su FB capita di vedere fotografie di Pier Paolo Pasolini, che gioca al calcio nei campi di Carrara, altrettante petraie alla periferia di Bologna, oltre l’ospedale Maggiore. Una fotografia, in particolare, bellissima, è un osanna al calcio. Non riesco a riprodurla e la descrivo. « È una giornata di sole e Pasolini è vestito di tutto punto, indossa un abito scuro e delle scarpe di cuoio, la cravatta e il pullover sotto la giacca. Nonostante l’abbigliamento, con l’interno del piede destro controlla un pallone, la gamba e il busto formano una sola linea assai inclinata, sotto il peso sull’altra gamba flessa e ben piantata a terra. I pugni sono stretti e le braccia larghe, tese come ali alla ricerca dell’equilibri; lo sguardo fisso a terra sul suo gesto tecnico. È in una strada ai margini di un campo pietroso. Dovrebbe esserci un’incongruenza tra quel vestito e l’impegno sportivo, tra quel vestito e il ‘gioco’: sulle gambe i pantaloni si agitano in mille pieghe, sbalzati da cunei di ombra e luce, le code della giacca l’aprono come un mantello e sventolano scomposte dietro la schiena. Invece tutto è naturale in quella foto: la posa e lo sguardo, l’abito e la strada; è una bella fotografia del Pasolini calciatore, perché il calcio al pallone è in essa un gesto di gioia e di libertà».

A quel tempo non avevamo mai sentito pronunciare il nome di Pasolini, ma poi, egli più di tutti, ci ha fatto capire che il calcio è poesia. Nel goal Pasolini vedrà il momento poietico della poesia. E noi abbiamo scoperto il posto che il calcio ha nella letteratura.

Saliamo nella notte dei tempi, alla canzone di Giacomo Leopardi «A un vincitore nel pallone». Scritta nel 1821, la canzone faceva parte del ciclo delle cosiddette «Canzoni civili e patriottiche», che esortavano alla riscossa nazionale. Il canto è già emblematico di quel modo di intendere lo sport appunto come metafora della vita, perché Leopardi, cantando le gesta di un famoso campione, peraltro patriota e carbonaro, lo esalta come esempio di energia sportiva, incoraggiandolo a comportarsi così anche nella vita, vedendo nell’azione coraggiosa e determinata l’unico rimedio ad un’esistenza altrimenti vuota e infelice.

Umberto Saba, un secolo dopo dedica al calcio cinque poesie, tra le quali la più bella è forse “Goal, che mette in evidenza il momento più importante della partita, quello del goal che risolve il gioco di squadra in un confronto diretto tra l’attaccante il portiere.

Le altre quattro poesie sono: Squadra paesana (Anch’io tra i molti vi saluto, rosso – / alabardati, /sputati /dalla terra natia, da tutto un popolo /amati), Tre momenti, Tredicesima partita, Fanciulli allo stadio.

Perché il calcio è così misteriosa magia, nel suo primo romanzo «Febbre a 90’ », lo scrittore inglese Nick Hornby può scrivere: « Mi innamorai del calcio come mi sarei innamorato delle donne: improvvisamente, inesplicabilmente, acriticamente ».

«Febbre a 90′»  è la storia della relazione tra l’autore, Hornby stesso, e il calcio, in special modo con l’Arsenal, squadra di Londra. Consiste di un buon numero di racconti , ognuno relazionato con una singola partita tra il 1968 e il 1992. Mentre Hornby racconta gli alti e bassi dell’Arsenal, espone anche gli avvenimenti della propria vita, sempre intrecciati con l’adorazione di idoli dell’Arsenal e il disprezzo per giocatori deludenti.

«Febbre a 90’» vendette più di un milione di copie solo nel Regno Unito. Fu anche visto come una pietra miliare nella percezione pubblica del football, rendendo accettabile, o addirittura alla moda, l’interesse per questo sport anche in circoli più sofisticati.

Ritorno a Pasolini rimarcando che fu fantasiosa ala destra (ispirato al suo modello, il grande Amedeo Biavati) e scrisse molto di calcio, definendolo «l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo». Con originalità assimilò il calcio a un vero e proprio linguaggio coi suoi poeti e prosatori (i cifratori sono i giocatori, noi, sugli spalti, siamo i decifratori). «Corso» – diceva Pasolini – «gioca un calcio in poesia». E ancora: «Rivera gioca un calcio in prosa: ma la sua è prosa poetica, da ‘elzeviro’. Anche Mazzola è un elzevirista che potrebbe scrivere sul ‘Corriere della Sera’, ma è più poeta di Rivera; ogni tanto egli interrompe la prosa, e inventa lì per lì due versi folgoranti.» E, infine, «ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica».

In un’intervista, Adriano Sofri disse: “Non c’è niente che spieghi Pasolini quanto il suo modo di giocare a pallone.”

Persino il papa Francesco, anch’egli appassionato di calcio (spesso ha citato il gol del calciatore Pontoni che diede lo scudetto argentino al San Lorenzo nel 1946 come uno dei suoi ricordi più belli) ha ripreso, a modo suo, il tema del calcio come metafora della vita. «Mi spiego» – ha detto rivolgendosi a dei calciatori – «nel gioco, quando siete in campo, si trovano la bellezza, la gratuità e il cameratismo. Se a una partita manca questo, perde forza, anche se la squadra vince. Non c’è posto per l’individualismo, ma tutto è coordinazione per la squadra.»

Se molti sono gli scrittori e poeti italiani, anglosassoni, sudamericani in particolare, ecc,. che hanno dedicato loro opere al calcio (sono tanti, impossibile citare anche solo i più significativi – e, citandoli, dire qualcosa di essenziale sulle loro opere), non sono mancati e non mancano calciatori che hanno scritto dei libri – non quei libri-biografie scritti evidentemente da (o con l’aiuto di) ghostwriter con intenti più commerciali che letterari. Alcuni calciatori sono diventati anche grandi scrittori o poeti.

Ricordo Ezio Vendrame (estroso e atipico calciatore degli anni Settanta, genio e sregolatezza), oggi apprezzato poeta; il campione argentino Jorge Valdano, compagno di nazionale del grande Maradona, e la promessa del calcio, sempre argentino, Osvaldo Soriano. Forse Soriano è il più grande scrittore di calcio (e perciò… di vita) con i suoi indimenticabili racconti proposti, come spesso accade nella narrativa sudamericana, con accenti visionari, poetici, fantastici.

«Pensare con i piedi» e «Fùtbol»: le sue raccolte più famose, nelle quali parla di calcio, certo, ma anche della storia sofferta dell’Argentina, del suo immaginario privato, della sua infanzia, del suo orgoglioso genitore, antiperonista ed eterno perdente, storie dove spesso l’avversario è un stopper arcigno che ti rifila calcioni senza pensarci due volte, proprio come fa la vita, ma dove puoi anche sognare: «Avevo l’impressione di guadagnarmi qualche attimo di paradiso ogni volta che entravo in area e mi ritrovavo tra due disperati che si credevamo macellai e assassini…». «Il rigore più lungo del mondo» è un capolavoro e non a caso è probabilmente il racconto di calcio più conosciuto al mondo. Straordinaria la lettura di Baricco – scrittore per il quale non nutro particolare simpatia – qualche anno fa in un programma televisivo.

Tra i tanti, tantissimi non ricordati, non posso tuttavia ignorare quella sorta di thriller sportivo che è «Il centravanti è stato assassinato verso sera» del grandissimo scrittore spagnolo Manuel Vázquez Montalbán, scomparso nel 2003. Montalbán prende a pretesto una vicenda sportiva per scrivere un giallo (protagonista il suo mitico personaggio, il detective Pepe Carvalho) e per raccontare una Barcellona sconvolta dai lavori e dalle speculazioni per i Giochi Olimpici del 1992.

La personalità del costituzionalista e regionalista Livio Paladin (ordinario di diritto costituzionale all’Università di Padova, presidente della corte costituzionale e due volte ministro, chiamato al governo come tecnico in momenti di gravi crisi politiche e governative), presentava lati diversi, oltre quello del giurista, al quale univa la grande passione per la musica e l’amore per lo sport, in particolare la montagna e il calcio. Giovanissimo fu giocatore della squadra della Triestina, che militava in serie B, e fu anche presidente della Commissione d’appello federale della Federazione italiana giuoco calcio (CAF) dal 1986 al 1992. L’accettazione di questa carica suscitò grande sorpresa e qualche critica. Il 1° luglio 1986 scadde il mandato di presidente della corte costituzionale e, potrebbe dirsi, senza soluzione di continuità Paladin passò a presiedere il supremo tribunale della giustizia calcistica. La CAF, infatti, era l’organismo che giudicava in ultima istanza sulle controversie di giustizia sportiva che via via si presentavano nel calcio italiano. Tali controversie, solitamente, venivano sottoposte dapprima al giudizio delle Commissioni Disciplinari pertinenti e poi, in secondo grado, alla CAF. La sentenza d’appello emessa da quest’ultima era quella definitiva ed inappellabile, anche grazie alla cosiddetta “clausola compromissoria” che impediva a tesserati e società di ricorrere alla giustizia ordinaria per risolvere le controversie sportive. La mancata conoscenza del calcio trattato giuridicamente dalla penna dl grande giurista Livio Paladin è un vuoto, che non spero di poter colmare.

 

3 Responses to INTRODUZIONE A UNA RICERCA SUL CALCIO TRICARICESE

  1. Rachele ha detto:

    Prima di leggere:
    Bentornato!

    • antonio martino ha detto:

      Ben trovata, grazie. Sono over 90, di quasi tre mesi over 91. Un fardello enorme, insopportabile. E questa non è la parte peggiore. Ho deciso di scrivere un libretto,anche meno di un centinaio di pagine. Ce la farò? La fatica è enorme. Il titolo è bello: La romantica avventura di un ragazzo di Tricarico nella città che ha amato le stelle. Non posso farcela e curare anche Rabatana.

  2. Rachele ha detto:

    Il titolo del libro è bello, ma sarà ancora più bello il contenuto, ne sono certa. Spero di essere nella lista delle persone a cui lo spedirai. Buon lavoro!

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