La sera del 27 marzo 1944 –  una sera di tregenda con la cenere che cadeva come se nevicasse e si era depositata per alcuni centimetri – Palmiro Togliatti, capo dei comunisti, con un lungo periplo di più di un mese Mosca-Baku-Il Cairo, Algeri – si presenta alla Federazione comunista napoletana.

Nelle stanze finalmente silenziose della federazione comunista di San Potito sono rimasti in tre, Salvatore Cacciapuoti, segretario della federazione, Clemente Maglietta e Maurizio Valenzi. All’improvviso: due colpi decisi alla porta. Un’occhiata all’orologio e i tre si mettono all’erta. È un’ora insolita per le visite, hanno qualche avversario, la città è infestata di bande pronte ad usare le armi per pochi spiccioli o per una gratuita violenza. Cacciapuoti va alla porta. Maglietta e Valenzi sentono il cigolio del battente e un vago mormorio. Decifrano una frase appena: «È troppo tardi, la federazione è chiusa, tornate domani». Scorrono i secondi. Che cosa sta accadendo? Li blocca un urlo di Cacciapuoti: «È lui, è arrivato. Correte, Ercoli è qui».

Palmiro Togliatti, il compagno Ercoli, è pallido e smagrito, più vecchio e stanco dei suoi 51 anni. Ha gli occhiali, con un’antiquata montatura di metallo, in mano una pipa di radica, un’aria trasandata e un po’ straniera. Così  si presenta alla federazione comunista di Napoli il capo del partito comunista italiano che torna dopo diciotto anni di esilio.

Togliatti è accompagnato dall’avvocato Adriano Reale, fratello di Eugenio. Eugenio è comunista, dopo la Liberazione fu nominato ambasciatore a Varsavia. Adriano milita nel Partito d’Azione, non ha mai aderito al Pci. Con una solennità in cui è evidente l’ironia, dice: «Signori, permettete che vi presenti il segretario del vostro partito».

Togliatti, giunto a Napoli, aveva cercato invano Eugenio Reale, infine era approdato allo studio legale, a Materdei, del fratello Adriano, che lo accompagnò alla sede della federazione comunista.

 

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