Stigliano terra di magistrati
in primo piano Pierfilippo Laviani e Angelo Colangelo

Stigliano, che pure è in Italia, a differenza dell’Italia non è terra di santi, poeti e navigatori.

È scontato che non sia terra di navigatori ed è presto detto il perché. Si tratta di un paese di montagna e, più precisamente, del paese più alto in tutta la provincia di Matera. In questi paesi, appollaiati sui monti e rimasti isolati per saecula saeculorum a causa della mancanza delle strade di collegamento, il mare era o ignoto o percepito ai confini del mondo. Un’entità quasi metafisica.

Ne è prova evidente il fatto che quasi tutti gli stiglianesi che nacquero, come me, nell’immediato secondo dopoguerra, videro per la prima volta il mare intorno ai diciotto anni e difficilmente riuscirono a stabilire con esso un rapporto confidenziale. Molti dei loro nonni o dei loro padri erano morti senza averlo mai visto, il mare. Al massimo, qualcuno lo sbirciò quando, chiamato a fare il soldato, fu obbligato a salire su per la penisola in tutta la sua lunghezza. O lo conobbe quando, spinto dalla miseria, fu costretto a imbarcarsi a Napoli per raggiungere la lontana America, da dove magari non avrebbe mai più fatto ritorno.

Non è neppure difficile immaginare che molti di coloro i quali fecero la rara esperienza di vedere il mare, ne ricavarono la stessa impressione del montanaro siciliano sceso per la prima volta a Palermo, di cui narra Gianni Riotta nel suo gustoso racconto “Sasà tra il vero e il falso”. Andò più o meno così. Quando, appena tornato in paese, un amico gli chiese una sua impressione personale sulla spiaggia di Montello, il montanaro non esitò a rispondere in maniera asciutta e disarmante: «Compare, mezza sarma i terrenu seminato a buttane». Insomma, al paesano, che per la prima volta era calato per caso dai monti verso il mare, non era parso di vedere altro che un piccolo e insignificante pezzo di terra ricoperto di ragazze discinte e spregiudicate.

Se non è terra di navigatori, men che meno Stigliano può essere considerato un paese di santi, perché la santità, si sa, richiede tante e tali virtù, che finisce per rappresentare una categoria molto sparuta. In ogni tempo e in ogni luogo. Si può, invece, tranquillamente dire che Stigliano è stato ed è nel complesso un paese di brava e buona gente. Questo, sì, è senz’altro vero e chiedo che mi si creda sulla parola.

Parlare, dunque, di santi stiglianesi non è il caso. Assolutamente no… Anche se, a pensarci bene, non si può sottacere che c’è una persona che da tempo vive in odore di santità almeno presso tutti quelli che ebbero la fortuna di conoscerlo sia nel suo paese natale che in terra di Calabria, dove trascorse una parte significativa della sua vita. È monsignor Vincenzo De Chiara. Fu per molti anni vescovo della storica diocesi di Mileto nella seconda metà del secolo scorso e fu un luminoso esempio di umiltà e di bontà, due doti davvero preziose, che gli furono da tutti riconosciute e gli meritarono la definizione di “Pastor bonus in populo”.

In ogni caso, sempre sul tema della santità, mi è capitato di porre a me stesso un interrogativo e di chiedermi: potrà mai diventare il mio paese un paese di qualche santo ufficialmente riconosciuto da Santa Madre Chiesa? Alla peregrina domanda, finora rimasta inevasa, io, pur dichiarandomi un pessimista ad oltranza, continuo a rispondere che è bene non mettere limiti agli imperscrutabili disegni della Divina Provvidenza e restare in speranzosa attesa.

Ora, però, lasciamo in pace i santi, perché è giunto il momento di occuparci dei poeti. Va detto subito che una labile traccia di poeti Stigliano riesce pure a mostrarla. Certamente non è paragonabile ad Herat, la città afghana evocata da Khaled Hosseini nel suo meraviglioso romanzo “Mille splendidi soli”, dove «non si poteva stendere una gamba senza dare una pedata in culo a un poeta». Piuttosto, se proprio si vuole essere pignoli e si vuol dire la verità fino in fondo, nel mio paese foltissima è la schiera degli aspiranti poeti o dei sedicenti tali.

Diciamo pure, in altre parole, che molti a Stigliano hanno amato e amano flirtare con le Muse, ma la loro passione in molti casi è risultata e risulta poco o male corrisposta. Insomma, per farla breve, si può concludere lapidariamente: versi tanti, poesia poca. A conferma che anche in àmbito poetico può valere il noto versetto evangelico con cui Matteo allude alla ricompensa eterna: “Multi sunt vocati, pauci vero electi”. Anche per questo sarebbe pura follia azzardare nomi di poeti stiglianesi. Avventurarsi nel terreno minato delle citazioni sarebbe impresa improvvida e da parte mia atto di puro autolesionismo.

Eppure, un’eccezione intendo farla, anzi due. Ben sicuro che a nessuno verrà lo sghiribizzo di protestare. Mi permetto di menzionare per primo, ma solo per ragioni anagrafiche, Nicola Berardi, un contadino intelligente ed eccentrico, vissuto a cavallo fra l’800 e il ‘900 e dotato di una buona cultura acquisita da autodidatta. A lui, denigrato in vita e riabilitato post mortem, la comunità stiglianese non ha mancato di rendere omaggio, seppure tardivo, intestandogli una strada.

Di Nicola Berardi ci sono pervenute in tutto sedici poesie, che propongono qua e là evidenti tracce autobiografiche. Il primo componimento, scritto fra il 1915 e il 1918, è un sonetto intitolato “A mia madre”. Fu ritrovato su una cartolina raffigurante una Madonna in lacrime e inviata alla madre dal fronte di guerra.

Nei momenti più felici della sua attività poetica, cui si dedicava nella casetta di campagna sul monte Serra ereditata dal padre Giosuè, Nicola riesce comunque a imitare in maniera non passiva ma originale, e talora con risultati apprezzabili, i suoi numerosi e autorevoli modelli letterari italiani, ma anche greci e latini, letti evidentemente in buone traduzioni.

L’altro poeta, che non posso fare a meno di menzionare, è il caro Padre Vincenzo Cilento, umanista famoso nel mondo per i suoi studi su Plotino, che molto furono apprezzati anche da Benedetto Croce, della cui casa il barnabita stiglianese fu assiduo frequentatore. Nel poco tempo libero che gli lasciavano gli assidui e severi studi del mondo classico e le incombenze del ministero sacerdotale e dell’insegnamento, egli non disdegnò di ritemprare e dilettare lo spirito, soffermandosi in compagnia delle Muse.

Ci ha lasciato una sessantina di raffinate e classicheggianti liriche, alcune delle quali mostrano davvero un’eccelsa cifra poetica. Rimaste a lungo inedite, esse furono rinvenute dopo la morte dell’autore e pubblicate postume nel prezioso volumetto “Ore di poesia”, curato con competenza e amore da due suoi allievi, Gerardo Sangermano ed Emma Del Basso. Anche a Padre Cilento, che per la gigantesca statura intellettuale e morale avrebbe senz’altro meritato una maggiore considerazione da parte dei suoi ignari o distratti concittadini, è stata intitolata una via nel paese natale.

Stigliano comunque, seppure povera di poeti e priva del tutto di navigatori nonché di santi, ha una strana peculiarità, che credo sia sfuggita in passato e ancora oggi sfugga all’attenzione dei più: l’essere stata una terra fertile di magistrati fin dai primi anni dell’Unità d’Italia. Forse ancora prima, chissà.

Ecco alcuni nomi di giudici, che a vario titolo possono essere considerati stiglianesi. Sono i primi che mi vengono in mente e li cito in ordine rigorosamente anagrafico: Filippo Laviani e i suoi figli Casto e Filippo, Felice Dipersia, Franco Calbi, i fratelli Antonio e Vito Tucci, Vincenzo Autera, Pierfilippo Laviani, Isidoro Rizzo, Nicola Dinisi. Stranezza delle stranezze, ben sette degli undici togati, che ho sopra nominato, hanno abitato, entro uno spazio non più grande di un centinaio di metri, in via Fratelli Bandiera, la strada che dall’alto della Villa si lancia con un tuffo temerario a raggiungere il Piano.

Premetto che io qui sorvolerò su gran parte di loro e mi limiterò a raccontare brevemente solo di pochi, ossia di coloro ai quali mi legano ricordi strettamente personali. Non perché, beninteso, abbia avuto a che fare con la giustizia …!

Allora, non seguendo altro criterio se non quello imposto dalle obbliganti ragioni del cuore, non posso che iniziare da lui. Da colui con il quale, fin da quando si era ragazzi, ho avuto un rapporto di calda amicizia, che si è mantenuta intatta nel corso di almeno sette decenni, violando le pur ferree leggi dello spazio e del tempo. Voglio intendere che si tratta di un’amicizia mai scalfita dalla lontananza o corrosa dalla ruggine degli anni.

In verità, Pierfilippo Laviani, è di lui che sto dicendo, è nato a Napoli nel 1947. Ma nella prima parte della sua vita è vissuto tra la città partenopea, dove allora risiedeva, e Stigliano, il paese della famiglia paterna. Qui nel palazzo avito, che ogn’ora abita in alcuni periodi dell’anno, trascorreva le feste natalizie e le lunghe vacanze estive. Più che lunghe sarebbe meglio dire interminabili, perché iniziavano a giugno e cessavano sostanzialmente solo nei primi giorni di novembre.

La cosa, per la sua lampante e sorprendente anomalia, richiede una doverosa spiegazione. Pierfilippo frequentò le scuole elementari a Napoli nel prestigioso istituto privato “Giovanna d’Arco” di via Ventaglieri, dove l’anno scolastico non iniziava il 1° ottobre, a quel tempo data canonica per l’apertura delle scuole statali, ma spesso dopo i morti. Perché non proseguissero oltremisura gli ozi estivi, il padre Casto si premurò che il figlioletto seguisse come uditore le lezioni a Stigliano. Ciò avvenne nella classe che io frequentavo e, perciò, seppure per periodi brevi con Pierfilippo fummo atipici compagni di scuola elementare.

Mi pare perfino superfluo aggiungere che a cementare la nostra amicizia, però, fu il fatto di essere assidui compagni di giochi. Indimenticabili restano le quotidiane e interminabili partite a pallone, durante le quali tutti noi ragazzi amavamo attribuirci il nome dei nostri idoli sportivi. Così io, in quanto tifoso della Viola già all’età di undici anni, diventavo magicamente Giuliano Sarti, “il portiere di ghiaccio”, se giocavo in porta, o il mitico Miguel Montuori, se il mio ruolo era in attacco; Pierfilippo a sua volta, il quale non poteva che essere tifoso del “Ciuccio”, a seconda del ruolo in cui si alternava, si appellava Ottavio Bugatti o Luis Vinicio, detto ‘o lione.

Un altro ricordo meraviglioso è legato a un viaggio singolare che a me e al mio amico, all’età di cinque o sei anni, capitò di fare insieme su una tipica vettura dell’epoca nei giorni in cui si vendemmiava nella vigna di famiglia. Intendo dire della sua famiglia. La vigna, da tempo scomparsa, si trovava nei pressi dello spazio che ancora ci si ostina pateticamente a chiamare campo sportivo, suscitando non poca ilarità.

Noi, che eravamo ancora degli scriccioli, vi fummo condotti in groppa a un asino: io in una cesta, Pierfilippo nell’altra e al centro, sul basto, il sapiente guidatore, il simpaticissimo e da noi molto amato zio Minguccio Cifarelli, uomo buono e generoso quanto altri mai e inarrivabile enologo della pregevole cantina dei Laviani, per quanto fosse sprovvisto di titolo accademico. Quel viaggio fu entusiasmante e lo ricordo come una immersione fantastica in un mondo incantato, che mi fece gustare il dolce sapore della festa della vendemmia.

Oggi di quei lontani anni non resta che fare memoria, rievocandoli con struggente nostalgia insieme con altri amici del bel tempo che fu sui gradini esterni della casa del compare Peppe Calbi, il milanese, che da tempo sembra fare da avamposto a palazzo Laviani. Per oltre sei decenni la mitica scala, ora triste e solitaria per undici mesi all’anno, ha ascoltato, rassegnata e comprensiva, le nostre storie infantili e giovanili, che si dipanavano attraverso appassionate conversazioni, le quali si protraevano talvolta fino a tarda notte. Né mai diede, la scala, segni di impazienza se, come spesso capitava, le nostre narrazioni diventavano ripetitive e noiose. Ancora oggi, benché accada molto più raramente, continua ad ascoltare, imperterrita e divertita, i racconti di noi che, divenuti anziani, amiamo rifugiarci voluttuosamente nel mondo rigenerante del passato.

In età adulta la professione di magistrato indirizzò Pierfilippo a Campobasso prima e poi a Roma, dove ha concluso la sua ragguardevole carriera come Procuratore Aggiunto. Nel lungo e brillante percorso professionale si è occupato di molti importanti processi riguardanti la criminalità organizzata, le grandi evasioni fiscali e i reati tributari, il famoso delitto dell’Olgiata, il giallo sulla scomparsa di Ettore Majorana, e di molti altri che hanno visto coinvolti famosi personaggi della politica, dell’economia e dello spettacolo. Ha anche avuto incarichi gravosi e delicati come, ad esempio, quello di organizzatore del Centro Intercettazioni (CICE). Comunque, né durante né dopo la sua lunga e intensa attività professionale ha voluto mai interrompere la frequentazione di Stigliano, paese cui sente di appartenere.

Per completezza di informazione devo aggiungere che Pierfilippo, dopo aver coltivato a lungo l’idea di fare il medico, decise di iscriversi alla facoltà di giurisprudenza e finì così per entrare in magistratura, consolidando un’antica tradizione familiare.

Magistrato fu, infatti, il nonno Filippo, che frequentò la III e la IV classe al Regio Ginnasio “Duni” di Matera tra il 1882 e il 1884, cioè negli anni stessi in cui in quel liceo insegnava Giovanni Pascoli. Lì ebbe inizio la sua formazione culturale ed umana, che lo avrebbe portato ad essere un giudice dotato di grande finezza intellettuale e di profondi valori morali.

Doti che furono esaltate poi dai figli Casto e Filippo. Il primo nacque a Ferrandina nel 1904 e trascorse i primi anni della sua vita fra Stigliano e Trani, dove il genitore operava. Rimasto orfano di padre in tenera età, continuò gli studi a Potenza e a Napoli, grazie alle amorevoli cure della madre Giovanna Rago e dello zio Francesco Laviani. Dopo la laurea iniziò la sua carriera di magistrato come pretore a Napoli, a Cortona, Civitella del Tronto, Buccino. Fu poi giudice nei tribunali di Potenza e di Salerno, prima di tornare a Napoli alla conclusione della seconda guerra mondiale. Consigliere e poi Presidente di Corte di Appello, concluse la sua splendida carriera di magistrato di raffinata dottrina giuridica e di rara integrità morale come Primo Presidente Onorario della Corte di Cassazione.  

L’austera figura di Casto Laviani, per me e per tutti “don Casto”, mi fu nota fin da bambino, ma mi divenne ancora più familiare a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, quando il grande giudice dimorò più spesso e per lunghi periodi a Stigliano, dopo il suo collocamento a riposo e dopo la morte del fratello maggiore Pietro, che fu per oltre venti anni il medico apprezzato, rispettato e amato della mia famiglia. In quel periodo ebbi il privilegio di avere con don Casto frequenti, amabili e per me arricchenti conversazioni.

Non meno stimato di don Casto era suo fratello Filippo, di due anni più piccolo, per il quale i familiari decisero di rinunciare al nome di battesimo Angelo, per fargli assumere il venerando nome del padre, che aveva perduto all’età di otto anni.

Anche Filippo diventò un illustre magistrato e fu conosciuto da tutti come don Filippo. Dopo gli studi a Potenza e a Napoli, entrò presto in magistratura e una delle sue prime sedi fu Pieve di Cadore, dove si trovò a operare nei tragici anni della seconda guerra mondiale. Non esitò, allora, a partecipare alla guerra di Liberazione e per questo ricevette l’attestato di partigiano dal Comitato di Liberazione dell’Alta Italia. Successivamente fu pretore a Capri, dove – non mancò di raccontarmi – i suoi frugali pasti in una modesta trattoria erano quotidianamente allietati dalle melodiche canzoni di un musicista, che si faceva solitamente accompagnare da un bambino vivace e simpatico. Quel ragazzino si chiamava Giuseppe Faiella e dopo alcuni anni sarebbe diventato semplicemente Peppino di Capri.

Don Filippo fu poi giudice di tribunale a Catanzaro e di Corte di Appello a Potenza, dove rimase per tutto il resto della sua carriera, che concluse come Commissario per la liquidazione degli usi civici della Basilicata.

Non lontano dal palazzo dei Laviani, sempre in via Fratelli Bandiera, che io mi diverto a indicare come la via dei giudici, è la casa della famiglia Tucci, dal cui seno spuntarono ben due magistrati. I miei ricordi personali sono legati soprattutto al maggiore di loro, Antonio, nato a Stigliano nel 1939, che fu Procuratore a Novara e Crema e terminò la carriera come Presidente del Tribunale di Piacenza.

Nel tempo in cui fu Sostituto Procuratore a Milano, lo incontrai casualmente davanti al Palazzo di Giustizia. Ero con il mio compare Peppe e con i miei cugini Franco e Mimmo e fu lui stesso che, avendoci riconosciuti, si avvicinò e si fermò volentieri a scambiare quattro chiacchiere. Ci invitò poi ad accompagnarlo alla macchina parcheggiata non lontano. Ci fermammo davanti a una ‘500 sgarrupata e non riuscimmo a dissimulare un moto di forte sorpresa. Anzi, Franco, impertinente e provocatore di professione, gli disse che quella schifezza di oggetto, che con tutta la buona volontà era difficile riconoscere come macchina, non era degna di lui. Ma Antonio non esitò a spiegare che, per quanto potesse servire, cioè poco o nulla, era una elementare forma di precauzione. L’intento era di passare inosservato, perché in quel tormentato periodo a Milano e in molte altre città imperversava la violenza dei gruppi extraparlamentari rossi e neri, che avevano già preso di mira alcuni giudici.

Ma il ricordo più bello che mi lega ad Antonio Tucci, peraltro grande amico di mio cugino Vito Capalbi, è molto più recente e risale a sette o otto anni fa. Me ne stavo tranquillamente a casa, quando mi raggiunse una telefonata di Rocco Lasaponara. Con i toni spicci e simpaticamente autoritari, di cui egli solo è capace quando vuole essere assecondato nelle sue richieste senza concedere alcuna possibilità di replica, m’ingiunse di passare subito dal suo ufficio di Assicurazione, perché c’era una persona che desiderava salutarmi. Pronunziai l’inevitabile “Obbedisco!” e mi precipitai, senza chiedere nient’altro. Mi ritrovai, poco dopo, di fronte il giudice stiglianese, che non vedevo da molti anni.

Ci salutammo cordialmente e demmo vita a una lunga e amabile conversazione. Volle anche complimentarsi con me per la pubblicazione di due miei saggi, che egli aveva letto e che lo avevano molto interessato. Poi mi fece dono di un ricordo che molto mi emozionò. Lo conservo ancora gelosamente e mi piace condividerlo con i miei pochi lettori.

Mi disse che, a dispetto del lunghissimo tempo che era passato, un’eternità, ricordava perfettamente il negozio di mio padre, che egli fin da piccolo frequentava assiduamente più volte al giorno. «In particolare – mi raccontò – ci andavo di corsa, tutto felice, ogni volta che con i miei piccoli risparmi avevo accumulato la somma necessaria per acquistare un libro. I miei libri preferiti da ragazzo erano i romanzi di avventura di Emilio Salgari e ne acquistai davvero tanti. Li divoravo e talvolta, alla fine della lettura, mi lasciavo trascinare dall’entusiasmo e mi spingevo a costruire nel balcone di casa, che si affaccia su piazza Monumento, una capanna di cartoni, che tuo padre stesso si premurava di conservarmi. E così, chiuso in uno spazio angusto, volavo sulle ali della fantasia e ripercorrevo le avventure degli eroi salgariani. Divenuto più grande, vi comprai anche il famoso libro di Carlo Levi, di cui tu ti sei molto occupato. Sono davvero belli – concluse il giudice Tucci – i ricordi che mi legano a tuo padre e al suo negozio, che spesso mi ritorna in mente con tanta nostalgia».

A questo punto il mio racconto può ritenersi terminato e mi affretto, dunque, alla conclusione, anche perché voglio evitare di annoiarvi ulteriormente. Prima, però, concedetemi di manifestare un’idea, o meglio di svelare un sogno, che coltivo nel mio intimo da qualche tempo: mi piacerebbe vedere intitolata la strada, che ora porta il nome di Attilio e Emilio Bandiera, ai fratelli Casto e Filippo Laviani. Senza nessuna intenzione, credetemi, né di offuscare il nome dei fratelli veneziani giustiziati nel 1844 dopo il fallimento della loro temeraria impresa in Calabria contro il regno  borbonico, né di offendere la memoria storica risorgimentale.

Dico solo che, se nell’estate appena trascorsa un ineffabile esponente del Governo Draghi ha preteso di intitolare un parco pubblico di Latina al fratello del Capo del Fascismo, cancellando i nomi di due eroici magistrati, sarebbe di grande significato che nella odonomastica stiglianese una strada ricordasse due grandi giudici, i quali nel secolo passato hanno dato grande lustro alla nostra comunità.

Sarebbe bello che il nome di Casto e Filippo Laviani figurasse accanto a quello di Vincenzo Cilento, Giovanni Cassino e altri in un Pantheon ideale, che accolga le personalità illustri di Stigliano e aiuti a tramandarne la memoria alle future generazioni.

 

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