Quinto, studente in un paese lucano,
Pisticci bianco e rosso sulla collina,
ucciso a Napoli il quattordici Luglio.
Luigi La Vista, di un paese lucano,
tra il Vulture e l’Ofanto altra collina,
cent’anni prima nel Largo Carità.

Erano di quelle terre,
La Vista: « Prisonnier de guerre! »
non voleva morire.

Neanche Quinto voleva morire.

(1951)

     La poesia ricorda la morte ingiusta di due giovani lucani avvenuta a Napoli: Quinto (Giovanni Quinto), ucciso il 14 luglio 1948, e Luigi La Vista, fucilato al Largo Carità cent’anni prima, il 15 maggio 1848.

     Il 14 luglio 1948 è il giorno dell’attentato all’on. Palmiro Togliatti. Alle ore 11,30 circa, l’on. Togliatti, uscendo da una porta secondaria del palazzo di Montecitorio in compagnia dell’on. Nilde Iotti, fu affrontato dallo studente universitario Antonio Pallante, che gli sparò alcuni colpi di rivoltella. Tre colpi colpirono gravemente il leader comunista alla zona toracica. Alla notizia dell’attentato, la rabbia del popolo di sinistra si scarica in una serie di confuse manifestazioni a metà strada fra la jacquerie e l’insurrezione. Cortei imbandierati di rosso battono le strade d’Italia. Il sincero dolore di compagni e simpatizzanti, l’angoscia, la voglia di rivoluzione e di rivincita, a tre mesi dalla storica sconfitta del 18 aprile, si sommano e caricano le ore di paura. Il Paese è percorso da una scossa elettrica: operai e contadini in piazza, sciopero generale prima spontaneo poi ufficiale, l’urlo della folla in marcia, le fabbriche occupate, le sedi cattoliche devastate, le camionette della Celere in azione, i comizi del Pci, i primi colpi, le prime violenze.

     A Napoli una grande massa di dimostranti confluì a piazza Dante e vie circostanti, affrontata dalla Celere, che cercava di disperderla. I dimostranti reagirono, la forza pubblica sparò alcuni colpi d’arma da fuoco, che lasciarono sul terreno lo studente d’ingegneria Giovanni Quinto di Pisticci e l’operaio Angelo Fischietti.

     Luigi La Vista, letterato e patriota, nato a Venosa nel 1826, a Napoli divenne uno dei più apprezzati discepoli di Francesco De Sanctis. Partecipò ai moti del ’48 e, dopo la concessione della Costituzione, redasse un proclama. Il 15 maggio combatté nella guardia nazionale, sorta a Napoli, come in altre città durante il Risorgimento, sull’esempio del corpo armato di cittadini, sorto a Parigi nel 1789, per difendere l’Assemblea da un colpo di stato della corte.

     Nel gennaio 1848 La Vista firmò, assieme ad altri 208 patrioti, un appello al re Ferdinando II perché ripristinasse la costituzione del 1820. Il re la riconcedette, spinto anche dalla rivolta avvenuta in Sicilia nello stesso anno. Il nuovo ordinamento però fu ritirato pochi mesi dopo, scatenando le proteste dei liberali. Tra loro ci fu anche La Vista, il quale decise di scendere in campo con il suo maestro De Sanctis ed altri patrioti contro il re borbonico, ma la loro ribellione fu repressa. Il 15 maggio fu scoperto da alcuni soldati svizzeri mentre si trovava in un albergo e fu condotto in piazza della Carità. Venne fucilato all’età di 22 anni, nonostante che si fosse arreso e proclamato prisonnier de guerre !.

     Prima di morire, il giovane La Vista aveva prodotto alcuni scritti che riuscirono a vedere la luce solo dopo l’unità d’Italia. Tali appunti vennero pubblicati nel 1863, sotto il nome di Memorie e scritti, a cura di Pasquale Villari, storico e politico, che del giovane venosino era stato compagno di studi alla Scuola di De Sanctis e uno Scritto Inedito (1914) venne curato da Benedetto Croce.

     E’ stato notato (Ritorno a Scotellaro di Franco Vitelli in Orizzonti della Rivista Lo Straniero, n. 162/163, – piuttosto, invero, in prospettiva di una rilettura del romanzo/racconto lungo Uno si distrae al bivio – che il tema della riluttanza alla alla morte, specie quando si tratta di giovani, è tema molto caro a Scotellaro e significa quasi un sentirsi addosso la sorte che a lui stesso sarebbe capitata. Lo riassumo molto brevemente.

     In un appunto inedito di fine 1944 Scotellaro in pratica contesta la fondatezza delle posizioni di Benedetto Croce che, nella sua Conversazione con i giovani, (ora in Scritti e discorsi politici. 1943-1947, vol. II, Laterza, Bari 1963, pp. 57-62) aveva sostenuto in punto di astrattezza filosofica l’insussistenza del problema giovanile, perché “la giovinezza è un fatto, non un problema” ed è come se si ponesse il problema della fioritura, “questo è un errore di impostazione, perché la fioritura è una condizione attraverso cui è necessario passare”, “i giovani non possono avere altro fine che di maturarsi a uomini”; cosa peraltro non facile considerati gli ostacoli e le difficoltà di ogni natura, per cui con atteggiamento paterno non paternalistico “possiamo e dobbiamo aiutarli, ma non sostituirci a loro e in loro”. Scotellaro oppone un’analisi di tipo storico-sociale, nel senso che solleva il caso “della gioventù fanatica, nazionalmilitaristica, che oggi non è facile giuoco svezzare dai sogni delle terre promesse” e quello di chi già “nelle redazioni dei fogli guffisti aveva portato un’irrequietezza derivante da un’ansia di libertà”. Ma, soprattutto, invita a considerare “quella parte di gioventù abulica e incosciente, che oggi ha pure un valore politico significativo perché quei giovani ci appaiono gli agenti dell’ultima resistenza fascista in Italia, se non sapessimo che gli ignavi, i senzabandiera di tutti i tempi, i cosiddetti apolitici, rappresentano i fattori negativi in ogni attività sociale, politica e intellettuale”.

     Sulle parole di Croce, che con la loro “elementare verità” tanto lo sconvolsero, Scotellaro ritornò con mutato atteggiamento nel 1952. Ne spiega la ragione: quando “i giovani tornavano laceri e senza speranza dai campi di battaglia e di prigionia” e “i loro problemi erano il vestito, il pane e un tetto”, difficile appariva affrontare filosoficamente la questione; “oggi si possono accettare senz’altro quelle parole: sempre i giovani hanno dovuto e devono maturarsi al clima del loro tempo”. Il nuovo appunto nasce nell’ambito di un fascio di riflessioni scaturite a un congresso sui giovani organizzato dal Pci, cui Scotellaro aveva aderito, come lui stesso afferma, “senza essere comunista” e “in una posizione di collaborazionismo”. Il quadro si allarga notevolmente sino a investire sinergicamente, con eco di ben note posizioni storiografiche, il Risorgimento e la Resistenza, con le alte mete ideali a essi sottese, la cui bandiera era “tenuta fermamente nelle mani dei giovani”. Del primo cita il caso di Luigi La Vista, ucciso precocemente “per mano delle truppe mercenarie del re traditore borbonico”, “sotto gli occhi del padre che era venuto dal paese lucano a vedere il figliuolo dalle belle speranze”; una maturazione interrotta di un giovane che “avrebbe dato un serio contributo alla nostra storia letteraria”. Con riferimento alla realtà postbellica Scotellaro afferma che “i giovani ora sanno che questa è l’ora della creazione della democrazia e spetta ad essi il maggior contributo perché la lotta per la democrazia coincide con il loro ingresso nella vita del lavoro, che è coscienza della propria storia”. Tra gli auspici e le proposte spiccano la creazione dell’unione dei giovani fuori dai partiti, il crollo della “indegna e mortifera divisione del mondo”, “un periodo di pace che garantisca la vita lieta e laboriosa ai giovani, i quali vogliono sfuggire al destino spartano di andare a fare le guerre”. Questi temi trovano traduzione poetica e anche maggiore illuminazione in due componimenti, Ai giovani comunisti e Due eroi.

     I due giovani lucani amavano la vita e gli ideali dei loro progetti. Non volevano morire. Neanche Rocco voleva morire: “se campo, come camperò, perché ne val la pena” furono le ultime sue parole scritte alla madre nell’ultimo giorno della sua vita.

 

2 Responses to ROCCO SCOTELLARO: DUE EROI

  1. Cesare monaco ha detto:

    L’unico commento che posso fare a queste importanti pagine di storia poco conosciute- almeno a me-che nessuno racconta, tranne tu è GRAZIE

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