Con la lettera lucana di oggi, Le voci perdute dei meridionali a Milano, Andrea Di Consoli immagina malinconicamente la stazione di Milano in un giorno del 1950 e l’arrivo di emigranti meridionali. Non poteva immaginare che avrebbe suscitato in me il ricordo del mio arrivo a Milano, in quella stazione, l’anno prima nel 1949. Avevo raccontato quell’arrivo, eravamo due ragazzi di Tricarico, io e Amedeo, detto Benito Lauria. Il racconto è molto lungo, mi è piaciuto rileggerlo e questo, unitamente alla malinconia di Andrea, sono motivi sufficienti per ripeterlo.  

Questo è il racconto, che ho già anticipato in un precedente commento in cui mi sono reso unico protagonista, di come io e Benito Lauria, con la nostra bella maturità classica appena conseguita, partiti alla conquista del mondo, non sapevamo fare una telefonata.

     Io e Benito siamo stati due fratelli siamesi: imbranati antidiluviani, zuppa e pan bagnato. Ci chiamavano i santi medici. Io, per il vero, ero un po’ meno imbranato: sapevo andare in bicicletta, Benito no, lo portavo in canna; giocavo al pallone, mi sono esibito come bravo portiere su vari campi, e Benito non ha mai dato un calcio a un pallone. Per il resto ECG piatto. Ma assicuro che anche il più spicchio della compagnia, con la telefonata, non se la sarebbe cavata meglio di noi.

     Dunque, conseguita la maturità, partimmo alla conquista del mondo, puntando su Milano. Non era la prima volta che tutt’e due uscivamo dai confini della Lucania. Li avevamo varcati per frequentare le prime due classi della scuola media. Benito le aveva frequentate a Livorno in un convitto per i figli bravi di postelegrafonici; io a Napoli. Le sorti della guerra ci costrinsero a tornare a Tricarico, dove ci preparammo privatamente per l’esame di terza media. Quindi, le prime due classi del ginnasio le frequentammo a Potenza, compagni di banco. Benito prendeva 8 in ginnastica, perché il preside si chiamava Lauria. Al liceo ci separammo, io lasciai Potenza, diciamo per motivi familiari.

     Andare a Milano non era come andare a Napoli o a Livorno. Decidemmo di dividere il viaggio in alcune tappe: Amalfi, Napoli e Roma, prima del grande salto. Uno dei motivi della decisione fu quello di salutare gli amici, quasi che stessimo emigrando per le lontane Americhe. Cosa che l’aspetto del nostro bagaglio rendeva verosimile.

     A Milano giungemmo con un giorno di anticipo. Il direttore dell’Istituto, l’Agostinianum dell’università cattolica, ci fece osservare, senza calcare troppo la mano, che il nostro arrivo anticipato creava qualche problema: – Eh! Ma noi veniamo dalla Basilicata – ci giustificammo, come a dire che, a tanta distanza, non sarebbe stato facile calcolare con precisione il momento dell’arrivo. Insomma, meglio in anticipo e che in ritardo.

– Basilicata? – disse con marcato accento milanese una ragazza venuta a informarsi di noi – Non so, che cos’è? Non l’ho mai sentita nominate! – Benito si infuriò e strapazzò con gli occhi fuori dalle orbite la saccente milanesina emunctae naris direbbe Orazio (Satire, 1,4,8), cu mucc a lu nas, volgarizziamo ancora meglio noi eredi del grande venosino.

     Eravamo giunti nel primo pomeriggio, dopo l’ora di pranzo. Il direttore ci chiese se avessimo mangiato e, avuta la scontata risposta negativa, dispiaciuto, ci disse che avremmo dovuto aspettare l’ora di cena, perché la cucina era chiusa. – Non importa, da mangiare ne abbiamo noi –. Ci accompagnò al refettorio, si sedette al tavolo con noi e, con gli occhi sgranati e la faccia incredula e divertita, ci vide cavar fuori dalla valigia quanto restava delle nostre provviste di ruccolo e frittata.

     Il giorno dopo, puntuali, giunsero gli altri. A pranzo sedemmo a un tavolo con un giovane sacerdote cinese e tre ragazzi. Con questi avevamo scelto lo stesso tavolo data la comune provenienza dal profondo sud. Il sacerdote cinese, in Italia da un paio di settimane, pretese di correggere il mio italiano. Io avevo detto: – Le città italiane – e lui, per l’appunto, mi corresse: – Si dice le citté. La città, le citté -. Senza successo tentai di spiegare, i miei compagni di tavolo, che se la ridevano, non mi dettero una mano.

     Dato tempo al tempo, questi compagni di tavola erano destinati a far parte di futuri governi, uno, di un futuro governo, sarebbe diventato presidente del consiglio. Si chiamavano: Ciriaco De Mita, Gerardo Bianco e Riccardo Misasi. Con nomi così, c’è da raccontare, ma qui racconto altro e di questo fuori tema dirò qualcosa in fondo e separatamente.

     La prima tappa del nostro viaggio fu Amalfi. Ci andammo per dare l’addio al sole e al mare del Sud. E Benito non conosceva la gemma della divina costiera. Una mia compagna di liceo e cara amica ci invitò a prendere un te nella sua bella casa, che separa le due piazze amalfitane, la piazza del mare e la piazza della Cattedrale. Aveva invitato anche altre tre o quattro ragazze ex compagne di scuola. In una stanza con vista sul monumento a Flavio Gioia e sul golfo di Salerno aveva apparecchiato elegantemente una tavola con una bella tovaglia ricamata e una parata ben ordinata e di grande effetto di piattini e tazze, teiere, bricchi di latte, fettine di limoni, gianduia a forma di formaggini e tovaglioli,. Tutta roba fine, di classe. Era anche questa una prima volta, la prima volta del te, e di un te elegante. Ma siccome la bagatella tratterà della prima telefonata, mi limito a raccontare che ce la cavammo non male, con umorismo. In fondo si trattava solo di capire se il te si beve solo col latte o col limone, o con tutt’e due. Non lo capimmo.

     Seconda tappa: Napoli. Niente di che, naturalmente. C’erano tanti amici, li salutammo tutti. Andammo a cinema, dove si esibì in concerto Sergio Bruni, che mandò in delirio il pubblico. Urla fischi rumori assordanti di piedi battuti sul pavimento c contro qualsiasi cosa facesse rumore, sembrava che la sala potesse crollare da un momento all’altro. Pensai che il pubblico contestasse il cantante, non potevano avere altra spiegazione i fischi e la gazzarra mai uditi e mai vista, invece esprimevano entusiasmo al massimo grado. Fischiare per applaudire era l’ultima novità importata dall’America.

     Ultima tappa prima di affrontare la lunga traversata dello stivale: Roma. Qui successe il fatto. Partimmo da Napoli ad ora tarda, dopo la mezzanotte, e viaggiammo tutta la notte. Napoli-Roma di quei tempi, con treni a trazione a vapore, e con la terza classe, che dopo un’ora ti aveva spezzata la schiena, era un’altra cosa! A Roma c’erano Gino, fratello di Benito, e Giovanni De Maria, che avevano affittato una camera in comune in una pensione. Avevamo il loro numero di telefono e ci accingemmo ad avvertirli del nostro arrivo.

     Matteo Renzi, quando era presidente del consiglio, accusò il segretario della CGIL Susanno Camusso che una sua proposta era come pretendere di mettere un gettone nell’IPhone. Per noi il compito si rivelò più difficile. La mansione toccò di diritto a Benito, figlio di don Michele La Posta, che era responsabile anche della gestione del servizio telefonico. Se non lui, chi? Benito si avvicina a un telefono a gettoni, una cassetta di non modeste dimensioni, collocata al di sopra del livello delle nostre spalle. Si pianta davanti, riflette, scruta, finalmente prende una moneta e tenta di infilarla nell’ apposita scanalatura, la moneta è troppo grande o troppo piccola, non scende. Benito ritenta. L’infernale macchinetta non ne voleva sapere. Ci consultammo e decidemmo che nessuna moneta poteva calare, perché un congegno posto nella scanalatura le bloccava. Ci consultiamo ancora, ci guardiamo attorno, vediamo come facevano quelli che a telefonare ci sapevano fare. Riusciamo a capire che non servivano soldi, ma che il telefono funzionava a gettoni. Trovati i gettoni e comperatone uno, torniamo al telefono. Benito aveva perso il diritto, eravamo alla pari e ci provai io. Patatrac: infilo il gettone, porto il microfono all’orecchio e premo il bottoncino che bloccava il gettone. Il gettone scende ed è perso. Avevo sbagliato anch’io. Benito mi scosta per sostituirsi a me, io scosto lui, perché credevo di aver capito come fare. Ci scostiamo vicendevolmente a spallate, mettendo in scena una gag che avrebbe fatta invidia a Totò e a Peppino De Filippo. Un signore, osservata la scena, si avvicina, ci chiede il numero al quale dovevamo telefonare, mette il gettone, fa scorrere la rotellina dei numeri, aspetta un poco, preme un pulsantino – sentiamo il tonfo del gettone – e ci passa il microfono – a Benito o a me, non ricordo – : – Ecco, parli -! Parlammo tutt’e due. Perbacco!

E ora qualcosa sui tre compagni di tavola.

De Mita aveva ventuno anni, due più di noi. Ci sarebbe da raccontare, e tornerebbe a suo onore, perché iniziasse l’università in ritardo. Era molto alto, magro come un chiodo e aveva capelli che sembravano poggiati provvisoriamente sul cranio, sul punto di volar via. Un colpo di tosse, un refolo di vento, un niente. Benito, che è stato suo compagno di corso, e non era un presuntuoso ma difficilmente era disposto a riconoscere che un altro fosse più bravo di lui, mi diceva che De Mita era il più capace dell’Agostinianum e della facoltà.

     Quando Benito fu eletto sindaco, e io ero segretario della sezione D.C., invitammo De Mita a tenere un comizio per la campagna elettorale. Era ben noto nella ristretta cerchia delle giovani teste d’uovo della sinistra di Base della D.C. e tra gli amici, ma per il resto era del tutto sconosciuto, mancavano sei anni alla sua prima elezione a deputato. Quando andai in caserma, secondo le disposizioni di pubblica sicurezza del tempo, ad annunciare il comizio e a chiedere l’autorizzazione per l’uso della piazza, il maresciallo mi disse: – Ma voi potete chiamare a fare comizi ministri e le più illustri personalità della politica, e invitate uno che si chiama Ciriàaaaco! –

Gli aveva telefonato Benito, gli avevo telefonato io, a tutt’e due assicurò che sarebbe venuto, ma non si fece vedere, senza darci nessun preavviso. Da un balcone in piazza annunciavo a gran voce il comizio del dott. Ciriaco De Mita, fidando nel suo miracoloso arrivo da un momento all’altro. Non so come ce la cavammo.

De Mita è stato una delle menti più brillanti della politica italiana e ha avuto intuizioni geniali per dare una svolta a un declino della politica, che si è rivelato inarrestabile. La sua pronuncia, delizia degli imitatori, è stata riabilitata dal linguista Tullio De Mauro, che nel libro di ricordi «Parole di giorni lontani» (Il Mulino) racconta al Corriere del Mezzogiorno: «I ben parlanti, come mio padre e De Mita dicono certe parole come nazione o pozione o paziente con una pronunzia che impressiona gli incompetenti e viene confusa con le sonorizzazioni indebite in cui possono cadere i napoletani». Sul suo linguaggio politico è stata presentata una tesi di laurea che ha meritato un 110 e lode.

Dopo averlo lodato a dritta e a manca, come sentivo il dovere di fare, devo amaramente concludere che a un certo momento il suo cervello si è ingrippato e ha smesso di ragionare di politica, come nessun altro aveva saputo ragionare prima. Non ha capito quando la musica era finita e l’orchestra si era ritirata. E’ voluto rimanere caparbiamente sul podio a costo di ricorrere a logiche clientelari e familistiche, che hanno appannato il suo glorioso passato e, a 93 anni, è ancora pateticamente lì, sindaco del suo comune irpino suffragato con l’80 per cento dei voti, ma bersaglio di frizzi e lazzi di squallidi guitti dei media e della politica.

     Bianco, nonostante che la politica l’abbia intensamente impegnato, è stato uno studioso, un latinista prestato alla politica. Ha visto prima d’ogni altro la parabola dell’Ulivo e i successivi tragici errori degli eredi della balena bianca.

Aveva grande amicizia e considerazione di Benito. Quando era segretario del PPI venne a Ferrara. Con lui parlammo anche di Benito (Amedeo lo chiamava lui, col suo nome anagrafico). Tra l’altro, Bianco mi disse che “Amedeo” era capo della segreteria politica di Francesco D’Onofrio, in quel periodo ministro della pubblica istruzione. – Che??? – chiesi meravigliato – Benito ha fatto il salto a destra? – Mi rispose: – Ma come puoi pensare questo? “Amedeo” è la coerenza fatta persona -.

Considerato grande meridionalista, è presidente dell’A.N.I.M.I. – Associazione Nazionale degli Interessi del Mezzogiorno d’Italia, Bianco è andato a ricoprire un ruolo che nel corso degli anni hanno ricoperto personaggi illustri come Giustino Fortunato, Benedetto Croce, Umberto Zanotti Bianco e Manlio Rossi-Doria.

     Misasi era il più giovane e mostrava una invincibile idiosincrasia non dico per ogni forma di ginnastica o di cura dimagrante, bensì per ogni minimo movimento che giudicasse inutile. A diciassette anni aveva preso la maturità con la media del 10. Come cavolo aveva fatto? Era il più giovane ed è morto ben ventuno anni fa. Percorreva una carriera precoce e brillante visse un calvario segnato di calunnie e d’ingratitudine, un percorso doloroso di cui fu sancita l’ingiustizia. Di lui lascio il ricordo di un libro pubblicato nel 1998 sulla storia del comune d’Orvieto (lui calabrese) dal titolo “Storia di un libero comune. Dall’esperienza antica di Orvieto provocazioni e pensieri per oggi” (Rubettino editore). Un bel libro ben informato e scritto e intelligentemente ragionato, dove c’è la zampata di un ragazzo che a diciassette anni supera l’esame di maturità con la media del 10.

 

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