All’alba è suonata la nostra sveglia. Mi sono riaddormentata e ho sognato di essere a Tricarico.  Passeggiavo, come ho fatto centinaia di volte da ragazza, lungo viale Regina Margherita, per andare in piazza. E lungo la strada, proprio di fronte al parco pubblico, dove da bambini andavamo ad ammirare la locomotiva a vapore, la mia attenzione veniva catturata da un monumento, mai visto prima, che evidentemente doveva essere stato eretto da poco.

Una scultura, ma con la definizione di dettaglio di un’immagine dipinta, ritraeva un fotografo, a capo chino, intento a cambiare l’obiettivo della sua  camera. Un giovane uomo che assomigliava straordinariamente a mio padre, come facevo notare a zio Pasquale, suo fratello, che incrociavo di fronte alla statua.

“E’ il tuo papà”, mi confermava lui, usando l’espressione  in quell’accento che mi è rimasto addosso dalle abitudini lombarde, così caro alla morfologia del cuore e bandito da quella della linguistica, e, soprattutto, estraneo al suo lessico che gli avrebbe senz’altro suggerito il più formale “è tuo padre”.

Doveva essere così, certo, del resto proprio in quel luogo, tanti anni fa, papà ha scattato a me e a mio cugino Maurizio alcune delle fotografie che amo di più.

C’era una fontanella di pietra, davanti alla locomotiva, una vasca tonda con lo zampillo al centro. Se ci premevi per un po’ il dito sopra, quando lo toglievi, lo schizzo erompeva sorprendente, velocissimo e verticale.

Maurizio portava una magliettina sopra i pantaloncini estivi e mocassini di cuoio; io un vestitino corto, uno scamiciato, senza maniche, a quadretti bianchi e blu, abbottonato sul davanti, secondo i dettami della moda di fine anni ’60, e sandali. Poco prima papà ci aveva fatto salire sulla locomotiva per ritrarci insieme in diverse pose, in una con il braccio di Mauri sulle mie spalle e l’imbarazzo che mi si disegna in una smorfia – diamine, non siamo mica fidanzati! – e mi irrigidisce il viso.

Ma in quella foto in bianco e nero, Mauri composto e sorridente, lo sguardo sulla vasca di pietra e le mani appoggiate sul bordo della fontanella, io sono lo zampillo che ride forte e schizza in alto, sono la linea tratteggiata, il taglio vivo che strappa al tempo la strada, il paese, l’infanzia felice e quell’estate lontana sotto il sole.

Mio padre aveva una Minolta, Nino, il papà di Mauri, una Rolleiflex, con il mirino a pozzetto che si svelava all’apertura del paraluce. Erano entrambi molto fieri delle loro macchine e delle fotografie che si stampavano da soli, papà in uno spazio ricavato sulla parete di fondo del garage di Pavia, che aveva attrezzato a laboratorio, con tanto di camera oscura, dove sviluppava fotografie in bianco e nero, su carta opaca, la mia preferita.

Ho conservato tantissime immagini che raccontano la storia di noi tre e che non ho osato trasferire a casa mia, dopo la morte dei miei genitori. Sono conservate nel mobile a cassetti dello studio, rigorosamente divise in serie e distribuite tra contenitori ed album. Ce ne sono alcune, in particolare, che in questi anni ho sentito il bisogno di avere sotto gli occhi, come i passi di un romanzo che ci ha irretiti, rapiti ai nostri giorni, parole che conosciamo a memoria, che abbiamo sottolineato con leggerissimi tratti di matita, e andiamo a cercare, sfogliando inquieti le pagine, per rileggerle esatte, per provare ancora più a fondo il dolore, il ricordo, la malinconia.

Io mi vado a cercare bambina amata e inconsapevole e felice, e mio padre è un ragazzo affascinante, vivace e spettinato e mia mamma è una timida, elegantissima giovane donna e noi tre siamo definitivamente irraggiungibili.

Non riuscivo a tenere gli occhi aperti di fronte al sole, si arrossavano e lacrimavano dopo qualche istante, mentre papà indugiava, alla ricerca dell’inquadratura perfetta. E i capelli, sempre davanti agli occhi, mio baluardo di difesa che una volta, al Buscofà, dovette cedere di fronte all’attacco del fermaglio con i fiorellini di panno Lenci, rosa e verdi, con cui mi arginò la frangia.

Nell’area archeologica di Pompei, avevo forse cinque anni, mi fece infilare all’interno di una macina del grano. Ancora una fotografia in quel giorno che non era d’estate, la terra delle strade della città antica  che impolvera le scarpe, e la mia giacca di pelle che mi fa sentire grande e che temo di graffiare, addosso alla pietra scabra.

E poi le Dolomiti, San Vito di Cadore, la foto rannicchiata, come un saltatore, con la prospettiva del trampolino olimpico; il Trentino, passo Falzarego e la pioggia con il sole, la birra nel ruscello, il profumo delle uova fritte con lo speck, sul fornello da campeggio, ed io in posa, seduta su un tronco, nel fiume, o a testa in giù, nell’ennesimo tentativo di una verticale perfetta, sul prato che brilla verde.

Ricordo anche un filmino in super 8, all’aeroporto turistico fuori Voghera, con la manica a vento bianca e rossa che svolazza e io che saluto, seduta su una staccionata.

Non l’ho più ritrovato, è andato sicuramente perduto durante uno dei tanti traslochi. La mia nostalgia più acuta.

L’infanzia, in pochi minuti, che ritorna in vita.

 

One Response to MARIA PAOLA LANGERANO – HO FATTO UN SOGNO

  1. Franco aiello ha detto:

    suggestiva malinconica narrazione che evoca emozioni che riportano ad un passato in cui si ritrova se stessi .

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