QUANDO MARIO TRUFELLI SI LEVO’ LA TONACA
Mario Trufelli è stato il mio primo amico a Tricarico (l’aggettivo numerale va inteso nel suo significato letterale) ed è rimasto un carissimo amico, “quasi un fratello”, lungo il corso delle nostre vite. La più lunga e bella e commovente telefonata per il mio libretto FRANCHINO La romantica avventura di un ragazzo di Tricarico nelle città che ha sempre amato le stelle me l’ha fatta lui. Ma di che meravigliarsi? Abitavamo faccia a faccia e Franchino l’ha conosciuto che era bambino di un anno.
La mia famiglia non è originaria di Tricarico, per il lavoro di mio padre ci trasferimmo a Tricarico da Accettura ed abitammo per alcuni anni in quell’appartamento che era stato adibito ad albergo dal nonno di Mario, don Michele Valinotti. L’ingresso è all’inizio di via Rocco Scotellaro, a un paio di metri dal livello stradale, collegato al portoncino da una breve scalinata. Nella casa di fronte abitava don Michele Valinotti, con nonna Valinotti, molto malata, che feci appena in tempo a conoscere, la figlia Vincenza e la figlia di questa, Lina. Di giorno abitavano in questa casa anche l’altra figlia Lucietta, maritata Trufelli, con i figli Michelina, Antonio e Mario. Le due famiglie vivevano unite, mangiavano lo stesso cibo alla stessa tavola. Il più grande dei fratelli, Ivo, era impiegato a Matera, il padre, Ciccio Trufelli, lavorava nelle Marche.
Casa Valinotti sembrava un cassero con uno spazioso pianterreno e due stanze sovrastanti l’un l’altra di un piano. Don Michele aveva imponenti baffi a manubrio, dai quali spuntava la lunga canna ricurva che reggeva il fornello di terracotta della pipa col coperchietto di latta bucato per l’areazione con abile mano d’artigiano. Dopo il servizio alle ferrovie, don Michele divenne usciere di conciliazione con compiti di ufficiale giudiziario presso la locale pretura. Restato solo per il matrimonio della nipote Lina trasferitasi con la madre a Santeramo in Puglia, don Michele andò ad abitare nell’altra casa, quella, diciamo, dei Trufelli.
Gran lavoratore, raggiungeva a piedi qualsiasi località del vasto mandamento a notificare un atto per risparmiare fino all’ultima lira possibile. E’ morto vecchio senza fare un giorno da pensionato. Quando morì, all’alba di un giorno di marzo del 1953, Michele Molinari, studente in legge che in quel periodo gli venne il ghiribizzo di anticipare l’esercizio della pratica legale in conciliazione, si recò da don Michele per chiedere la notifica di una citazione. Chiese al padre di Mario, seduto mestamente allo scalone: – Don Michele? – e quello rispose indicando la scala con un cenno degli occhi. Michele intese quel gesto come conferma che don Michele fosse ancora in casa e non era uscito prestissimo come il suo solito; salita la scala, entrò nell’appartamento, giacché la porta era aperta, riuscì a vincere rapidamente lo sconcerto che l’aveva preso e fu quindi il primo a dare le condoglianze, col fascicoletto della causa sotto il braccio.
Io non ho conosciuto nessuno dei miei quattro nonni e ne ho sentita la mancanza, vivendo questa condizione quasi con un senso di vergogna, e non mancai molto, giunto a Tricarico, ad eleggere don Michele a mio nonno. Non lo chiamavo don Michele, ma, per l’appunto, papanonno e gli davo il tu, come se fosse un nonno vero, carnale.
Mario, che, mese più mese meno, ha la mia stessa età, divenne naturalmente il mio primo carissimo amico. Uscendo di casa, saltando i gradini due o tre alla volta, sulla spinta finivo dentro casa Valinotti-Trufelli. – Ngì Mario? – era il mio saluto.
Quando andai a frequentare il ginnasio a a Potenza con Mario ogni giorno ci scambiavamo messaggi. Mario mi informava dei fatti di Tricarico e leniva la mia struggente nostalgia e una cotta ripagata con un aspro limone. Per corrispondere ci servivamo della targa dell’autobus di linea della SITA. Allora le targhe, rudimentali, erano avvitate all’automezzo con supporti di ferro, che davano modo di infilare messaggi.
Verso il finire di un’estate mi ammalai di tifo. Con Nicola Albanese andavamo a Fonti in bicicletta e ci fermammo a dissetarci a un rivolo che scendeva dal bosco. Animali del bosco l’avevano inquinato con le loro feci e ci ammalammo tutt’ e due di tifo. Il tifo era una grave malattia infettiva, a quel tempo praticamente incurabile, con frequenti esiti letali. Se non morivi restavi ciuto e spero di aver smentito la regola.Tifo è parola che etimologicamente esprime lo stato di imbolsimento in cui ti riduce la febbre altissima, che supera i 40 gradi. Allora non c’era altro da fare che cercare di abbassare la temperatura col ghiaccio, quel poco che si riusciva a recuperare dai proprietari delle nevere, che a fine estate erano praticamente esaurite, nonché osservare rigorosissime norme igieniche, che non sto a descrivere, e sottoporsi a una rigidissima dieta lattea: latte e solo latte, per un lungo periodo, credo una quarantina di giorni. Dopo di che m’ero ridotto praticamente a una larva.
Tutti gli amici sparirono, giustamente preoccupati di non immolare le loro vite per testimoniarmi amicizia. Mario si immolò, mi fece compagnia tutti i giorni, da mattina a sera, seduto al mio capezzale, parlando, parlando sempre e leggendo. Mi rimbambiva più del tifo, ma l’aspettavo con ansia, spiando attraverso i vetri del balcone della mia stanza da letto che sbucasse dal portoncino di casa Trufelli, la seconda casa.
Mario aveva deciso di lasciare il seminario, che aveva frequentato per un paio di anni, ma indossava ancora la tonaca; si vergognava a toglierla. Quando prese coraggio, lo vidi schizzare dal suo portoncino come la palla di un fucile, indossava pantaloncini corti e, correndo come un pazzo, in un amen fu al mio capezzale.
La bocca non la teneva mai chiusa: quando non parlava, leggeva. La testa mi turbinava, mi sentivo trasportato su una nuvola, dalla quale mi pareva poi di precipitare. Ma la compagnia di Mario mi faceva piacere.
Tra l’altro mi lesse un libraccio (e chi se lo può scordare?) intitolato «La mano del defunto (Continuazione al Conte di Montecristo», l’oltraggio più infame che un ignoto scribacchino potesse tramare contro il povero Alessandro Dumas.
Mi lesse anche un suo romanzetto rosa, dove, senza risparmio d’inchiostro, narrava la lacrimevole storia di un povero ragazzo timido, che si struggeva d’amore senza trovare il coraggio di dichiararsi al suo sdegnoso amato bene. So chi era la fanciulla, ma non lo dico. La storia era tutta inventata, ma in letteratura, si sa, tutto ciò che è inventato è vero.
Di questo romanzo mi resta il solo ricordo di un brevissimo frammento da cui partono le divagazioni di questa bagatella.
Bisogna sapere che Mario, nel 1948, partecipò a Roma alla imponente manifestazione dei “baschi verdi” di omaggio e saluto al Papa Pio XII. Centinaia di migliaia di ragazzi, esaltati dalla voce suadente di Carlo Carretto, segretario generale dell’Azione Cattolica, esultavano a voce alta: – Su, Su! Saltiamo sul carro di Carretto!
Nel viaggio di ritorno nella notte Mario subì il furto della valigia, che racchiudeva tutti i suoi scritti, che egli era solito portare con sé ovunque andasse. Di colpo svanirono tutte le prove letterarie di un aspirante scrittore e poeta! Chi piange quel furto, ora, sono io, che darei non so che cosa per leggere quella storia d’amore che mi imbambolò più del tifo.
In quel viaggio di ritorno coi baschi verdi una disavventura di diverso genere capitò a Benito Lauria, che nove anni dopo sarà eletto sindaco di Tricarico. Egli, per fare il filo a una ragazza, prese posto nella carrozza di coda, che a Sicignano fu agganciata al treno per la Calabria. Il filo non agganciò e Benito si addormentò.
Dormiva placidamente, non si accorse di nulla e placidamente continuò a dormire tutta la notte. Quando si svegliò, si affacciò al finestrino ancora insonnolito e si godette lo spettacolo del mare sciabordante nella valle del Basento. Fece fatica a capire che non era la costa calabrese.
Il padre, don Michele La Posta, furioso e preoccupato, sperando e sospettando che il figlio si fosse fermato a Napoli con Paolo Iuvone, disse: – Gliela faccio vedere io a quel delinquente! – e così telegrafò a Paolo: “Dimmi se Benito teco”. Paolo prontamente rispose: “Vistolo una volta, non vistolo più”.
Torno al brevissimo frammento del romanzo trafugato. Alla fine il giovanotto vince la timidezza, perfora la corazza di ritrosia della fanciulla e sfiora con un bacio le sue labbra. (Si ricordi: in letteratura ciò che è inventato è tutto vero!) «E con quel bacio – diceva il finale – ei la conquise».
Esausto, cercai con tutto me stesso di recuperare un po’ di forze e, soprattutto, un po’ di fiato, e con quel po’ fiato che recuperai non dai polmoni rinsecchiti ma dalle ossa, dissi: – Ei la conquise?! Ah Ma’, ma vaffa …”.
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Grazie grazie grazie. I suoi scritti e racconti mi emozionano.Sono un tricaricese che abita nella città che ama le stelle , e grazie a lei ho potuto capire molto meglio i fatti e personaggi del paese.Un abbraccio.
Non so se lei sa che Francesco Martino, a cui è dedicato il Planetario, era tricaricese. In questi giorni è uscito un libretto su Francesco Martino.La figlia, Francesca,le donerebbe volentieri una copia, che potrà ritirare alla Reception del Comune di Modena, piazza Grande 1. Se è intressato le telefoni al n. 3473602200 per indicare approssimativamente quando potrà passare a ritirare il libretto.
vlhok9