Caro Andrea,

La terza cosa che mi ero impegnato a raccontare è cosa fece Colombo prima di darsi alla vera politica. Un impegno impossibile da mantenere. Mi servirebbero energie che non ho e non recupererò più e qualche mese di duro lavoro, che sarebbe pazzesco pensare di poter svolgere. Presi sconsideratamente l’impegno avendo in testa un gran frullato di letture, riflessioni nel corso di una lunga vita e di varie esperienze, non raramente contraddittorie o talvolta senza risposte; del frullato, caro Andrea, fa parte sapere il tuo interesse per la politica, su cui non mi sono mai fermato seriamente a pensare, dovrei leggere attentamene le tue 470 lettere e riflettere.

La linea di partenza è incredibilmente scissa dalla politica. Lo stesso Colombo, nel libro di conversazioni con Arrigo Levi, pubblicato poche settimane prima della sua morte e sul quale intrattenni con lui l’ultima mia conversazione telefonica, afferma che mai aveva cercato di fare politica, anzi aveva cercato in ogni modo di sfuggire alla politica, ma la politica se l’era sempre trovata davanti; e Arrigo Levi commenta che questa affermazione apriva la prospettiva a due possibili carriere in alternativa alla politica: cantante di successo di canzoni napoletane o professore universitario di diritto ecclesiastico, carriera quest’ultima che in effetti Colombo intraprese, mentre la prima carriera gli era preclusa da un suo problema di gola. Indiscutibilmente aveva bella voce ed era bello e confortevole ascoltarlo canticchiare in macchina le lunghe notti di ritorno dai giri di comizi per tenere svegli. Una volta si addormentò e con lui ci addormentammo tutti e anche l’autista e finimmo in un vigna tra Stigliano e Accettura.

Concludo alzando le mani in segno di resa di fronte all’impossibilità di rendere il frullato che ho in testa in qualche rigo in più di una paginetta. Mi riduco, ma non sconsolatamente, a un aneddoto: il suo esame di diritto ecclesiastico. Un aneddoto che rimanda a una grande storia dimenticata di Potenza.

Il prof. Arturo Carlo Jemolo, che si accinge a esaminarlo,  guarda il libretto e chiede: «Ah, tu sei di Potenza, ma sai chi era mons. Serrao?».

Mons. Giovanni Andrea Serrao è stato un ecclesiastico di tendenze liberali con venature di giansenismo, vescovo di Potenza, orrendamente trucidato nel 1799 unitamente al rettore del seminario. La toponomastica potentina lo ricorda col secondo nome: Andrea. 
Egli abbracciò la dottrina giansenista condannata come eretica dalla Chiesa nel 1641 e scrisse diverse opere in latino, in cui sosteneva la concezione democratica dello Stato ed avversava la Curia Romana. Avviatosi alla carriera ecclesiastica, scrisse diverse opere in latino e acquistò notorietà perché sosteneva la concezione democratica dello Stato e si opponeva al potere della Curia Romana.
Prese parte attiva alla Repubblica Napoletana del 1799, auspicando l’erezione dell’albero della libertà nella sua sede vescovile, per l’appunto Potenza, dove venne assassinato il 24 febbraio 1799 da cittadini realisti ed antifrancesi vicini al cardinale Ruffo che, tagliatogli il capo, lo infissero su un alto palo (volendo evidentemente schernire la sua erezione degli “alberi della libertà della città” nella città) e lo portarono in corteo per le vie della stessa.
Morì trucidato non giacobino, ma piuttosto martire in nome di una riforma religiosa e politico-ecclesiastica che aveva, senza successo e con ostinata fedeltà, perseguito durante tutto il corso della sua vita.

Colombo conosceva la storia di Mons. Serrao e, penso, non a caso fu un conservatore che seppe battersi contro il populismo di quegli anni e con l’insorgere di tendenze politicamente estranee al nucleo del pensiero democratico, si era mantenuto al riparo dalle ventate populiste e destrorse, specie quando queste tentarono di sommergere il partito popolare, erede della Dc: e Colombo pronunciò forse il suo discorso più bello, in un consiglio nazionale del Ppi, quando Buttiglione tentò di impadronirsi di quel partito contro Rosetta Jervolino.

 

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