INVITO
Le Nenie, E’ un ritratto tutto piedi, Il primo addio a Napoli, Invito

LE NENIE

Rifanno il giuoco del girotondo
i mulinelli nella via.
Anch’io c’ero in mezzo
nei lunghi giorni di fango e di sole.
Mia madre dorme a un’ora di notte
e sogna le mie guerre nella strada
irta di unghie nere e di spade:
la strada ch’era il campo della lippa
e l’imbuto delle grida rissose
di noi monelli più figli alle pietre.
Mamma, scacciali codesti morti
se senti la mia pena nei lamenti
dei cani che non ti danno mai pace.
E non andare a chiudermi la porta
per quanti affanni che ti ho dato
e nemmeno non ti alzare
per coprirmi di cenere la brace.
Sto in viuzze del paese a valle
dove ha sempre battuto il cuore
del mandolino nella notte.
E sto bevendo con gli zappatori,
non m’han messo il tabacco nel bicchiere,
abbiamo insieme cantato
le nenie afflitte del tempo passato
col tamburello e la zampogna.

(1947)

 Si ignora chi sia l’autore di questo commento ripreso dal blog del conduttore, che dichiara di non riuscire a ricordarlo.
Il commento è bello e senz’altro lo leggiamo:

« Nella poesia di Scotellaro il popolare è il vero substrato, la profonda trama narrativa delle sue parole, che si attua non attraverso il linguaggio come in Pierro, ma nello scavo perenne dei topoi arcaici del mondo rurale: oggetti, animali, presenze magiche rimandano a un rituale mitico irrazionale e alogico. È come se Scotellaro possedesse le virtù divinatorie del vento, del serpente, delle magiare, in un mondo dove vivi e morti si sovrappongono e si confondono: Mamma, scacciali codesti morti se senti la mia pena nei lamenti dei cani che non ti danno mai pace. E non andare a chiudermi la porta per quanti affanni che ti ho dato e nemmeno non ti alzare per coprirmi di cenere la brace. Oppure nel trigesimo della morte del padre, nello scorcio del paese: In quei viottoli neri una sera di queste, sedevano le famiglie dopo cena ai gradini delle porte, era un lento pensiero della vita: cantavano i defunti e i nati dell’estate che correva.
Immagini statiche, sospese nel tempo e nello spazio, trovano in Scotellaro l’aèdo, il cantore di miti perduti, di fiabe tramandate di generazione in generazione, dove la vita dei singoli è vita di tutti, dove appunto trasgredire all’ordine naturale delle cose significa perdere il senno per sempre. Un pessimismo lucido e razionale che coincide perfettamente con la tragica vicenda esistenziale, la morte precoce e prematura, il disagio, l’impossibilità di trovare la casa. Poeta della sua generazione, Scotellaro canta la precarietà della società contemporanea, dipingendo le memorie mitiche di un equilibrio infranto, da ricercare nella prigione del cielo. Ritorno al bugigattolo del mio paese, dove siamo gelosi l’un dell’altro: sarà la notte insonne dell’attesa delle casine imbianchite dall’alba. Eppure è una gabbia sospesa nel libero cielo la mia casa.
Di notevole interesse gli appunti di Scotellaro pubblicati da Giovanni Battista Bronzini, che dimostrano la piena coscienza del poeta di trovarsi di fronte a un mondo che sta repentinamente cambiando (è la stessa consapevolezza più volte espressa da Pasolini nei confronti del pericolo della massificazione). In questo passo, viene così abilmente colta dalla penna di un grande scrittore la differenza tra il folklore e l’importanza della tradizione, della storia dei padri che si manifesta esteriormente anche solo rivestendosi con gli abiti di una volta ».

Carlo Levi data la poesia al 1947, il prof. Franco Vitelli al 1945. Una giovane studiosa di Scotellaro, Francesca Cosentino,  nella sua tesi di laurea, conservata presso il Centro di documentazione Rocco Scotellaro e il secondo dopoguerra di Tricarico, leggendo le poesie in ordine cronologico, descrive l’evoluzione nella versificazione della poesia di Scotellaro. Pur conoscendo la diversa data attestata da Vitelli, la Cosentino fa risalire Le nenie al 1947, a partire dal quale periodo, secondo la giovane studiosa da alcuni anni al tempo impegnata nelle sue ricerche a Rio de Janeiro, si rivela in alcune poesie una riproduzione quasi meccanica del parlato, tant’è che alcuni critici le hanno definite «cronache cantate» (pp. 66-67). Il riferimento è a Folco Portinari Rocco Scotellaro: un mito nuovo?, in AA.VV., OMAGGIO A SCOTELLARO, pp. 253 – 263.

È UN RITRATTO TUTTO PIEDI

Nella grotta in fondo al vico
 stanno seduti attorno la vecchia morta,
le hanno legate le punte
delle scarpe di suola incerata.
Si vede la faccia lontana sul cuscino
il ventre gonfio di camomilla.
E’ un ritratto tutto piedi
da questo vano dove si balla.

(1948)

 L’estate del 1948 fu molto calda e afosa. Di giorno ci si difendeva dal caldo e dall’afa tenendo le case sbarrate, perché, per generale convinzione, ciò che difende dal freddo difende dal caldo; di sera aprendo porte e finestre e prendendo il fresco seduti sui balconi o sugli usci delle case.
Le maggior parte delle case della Rabata e della Saracena avevano un solo vano e i vicoli brulicavano di persone che prendevano il fresco. L’una di fronte all’altra, in quei vicoli stretti, con le porte spalancate, la case sembravano vani comunicanti.
Una sera di luglio, in un vicolo della Saracena, due case, una di fronte all’altra, erano piene di gente, e nessuno era seduto sull’uscio a prendere il fresco.
In una casa si festeggiava un matrimonio, si ballava e si beveva il rosolio; l’aria era bollente e irrespirabile per la folla di ospiti, il ballo e il rosolio, bevuto generosamente in bicchierini della grandezza di un ditale colmi fino all’orlo. C’era Rocco Scotellaro e c’ero anch’io. Nella casa di fronte c’era una veglia funebre, tutti seduti attorno la vecchia morta, con le scarpe di tela incerata legate alle punte. Dal vano dove si ballava, le scarpe di tela incerata, della vecchia stesa sul letto, parevano enormi e coprire quasi per intero la visuale, lasciando intravedere la faccia lontana sul cuscino e il ventre gonfio della morta.
Questa è il mio ricordo di partecipante a quella festa di matrimonio, alla nascita di un canto poetico, alla comunicazione universale di quell’evento mediante cronaca poetica e cantata, che entrò a far parte del repertorio canoro di Maria Monti.

IL PRIMO ADDIO A NAPOLI

Il concertino girovago ammalia 
qui a ridosso della Duchesca, 
dove giovani diciassettenni e una zoppa 
hanno un cantiere di camere 
su portoni sporchissimi. 
Il burattinaio è un vecchio 
pescatore invalido. 
Ognuno solo si preoccupa 
del proprio oggetto da vendere. 
Ognuno fa sentire la sua voce. 
Io sono meno di niente 

in questa folla di stracci 
presa nel gorgo dei propri affanni. 
Sono un uomo di passaggio, si vede 
dal cuscino che mi porta 
le cose della montagna. 
Il treno al binario numero otto 
ci vogliono ancora molt’ore 
fin che stiri le sue membra con un fischio. 
Non voglio più sentire queste rauche 
carcasse del tram. 
Non voglio più sentire di questa città, 
confine dove piansero i miei padri 
i loro lunghi viaggi all’oltremare. 
Ritorno al bugigattolo del mio paese, 
dove siamo gelosi l’un dell’altro: 
sarà la notte insonne nell’attesa 
delle casine imbianchite dall’alba. 
Eppure è una gabbia sospesa 
nel libero cielo la mia casa. 

La lirica «Il primo addio a Napoli» è un canto di invettiva sociale e politica e di nostalgia, reso in musica, con altre poesie di Scotellaro, alcuni anni dopo la sua morte e cantato da Maria Monti. La Monti è stata una cantautrice che esordì nei cabaret milanesi alla metà degli anni Cinquanta, in un periodo di vivaci fermenti nel mondo dello spettacolo, esibendosi con Giorgio Gaber, Lucio Dalla, Francesco De Gregori, Antonello Venditti, e con Paolo Poli nelle «Canzoni del diavolo». Il canto di Scotellaro fu inciso su disco in vinile a 45 giri (che, dopo aver rivoltato da cima a fondo casa mia, purtroppo non ho trovato, devo dare per perso, buttato via non so da chi).
La nostalgia porta a fuggire da un luogo sgradevole. Rocco Scotellaro sceglie simbolicamente una zona di Napoli non solo degradata, ma scesa rapidamente a quel miserevole stato di degrado, segnato da miseria e prostituzione, improvvisati mestieri e miseri commerci d’accatto, da un passato di splendore. Qui a ridosso della Duchesca.
 La Duchesca è una zona di Napoli nelle immediate vicinanze di Castel Capuano, che conserva il nome di una villa rinascimentale. L’edificio, realizzato sul finire del XV secolo, fu progettato per Alfonso II d’Aragona, re di Napoli e allora ancora duca di Calabria, e fu celebre soprattutto per lo splendore dei suoi giardini. La villa era in collegamento col Castello Capuano grazie a viali interni ai giardini, in parte preesistenti alla villa stessa e strutturati in varie zone, con forme geometriche, fontane e anche con terrazzamenti.
Il nome Duchesca risulta generalmente riferito alla figura dalla duchessa Ippolita Maria Sforza, moglie di Alfonso, morta però prima della realizzazione del corpo di fabbrica principale. Pare che il giardino contenesse vari edifici, anche più antichi, costituendo un complesso con logge e padiglioni destinato a essere una gradevole residenza per la corte, complementare alla residenza ufficiale di Castel Capuano. La villa fu costruita quasi in concomitanza a quella di Poggioreale anch’essa scomparsa. Entrambe furono importanti elementi di riqualificazione urbana per le aree circostanti, con bonifiche, impianti viari, e opere pubbliche.
Le vicende storico-politiche della dinastia aragonese causarono il sostanziale abbandono della villa pochi anni dopo la sua realizzazione: ciò ebbe come conseguenza la progressiva edificazione privata che rapidamente inghiottì completamente il vasto giardino. Già nella seconda metà del XVI secolo il complesso era in avanzato stato di degrado. Seppur danneggiata, la struttura edilizia sopravvisse fino alla seconda metà del  XVIII secolo, quindi fu progressivamente spogliata dei suoi materiali da costruzione, e scomparve senza lasciare né traccia materiale né testimonianze iconografiche.
Proprio a ridosso delle mura aragonesi, accanto alla Porta Capuana, si trova una delle più belle chiese rinascimentali di Napoli: la Chiesa di Santa Caterina a Formiello, dedicata alla Santa martire e vergine d’Alessandria.
Il poeta è uno di passaggio, avviato verso un altro luogo di Napoli, la vecchia stazione ferroviaria di piazza Garibaldi, dove, sul binario numero 8 attendeva il treno, che, mancavano ancora molte ore prima che stirasse le sue membra con un fischio, quaranta minuti dopo la mezzanotte.
Il binario numero 8 e quel treno della speranza in attesa, a sinistra del fronte dei binari, sono uno dei più commoventi ricordi per chiunque, fin quando la vecchia stazione napoletana non fu sostituita, avesse provvisoriamente vissuto a Napoli, coltivando la nostalgia nel cuore. Maria Monti e l’autore delle pochissime modifiche necessarie per esigenze musicali, non potettero rendersi conto della ferita che aprirono nell’anima di chiunque avesse coltivato tale nostalgia, avendo sostituito al binario numero otto, il binario numero dieci.
Nel poeta la nostalgia diventa anche invettiva personale e politica. (Non voglio più’ sentire queste rauche / carcasse del tram. / Non voglio più sentire di questa città, / confine dove piansero i miei padri / i loro lunghi viaggi all’oltremare ).
Il problema dell’emigrazione è uno dei temi più affrontati da Rocco Scotellaro. C’è il grande tema dell’America, terra promessa per tanti contadini meridionali, ma anche la fine dell’illusione del sogno americano. Seguirono le nuove grandi ondate migratorie verso il nord dell’Italia e dell’Europa che tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta svuotarono il meridione: «C’era l’America, bella, lontana / del padre mio che aveva vent’anni. / Il padre mio poté spezzarsi il cuore. / America qua, America là, / dov’è più l’America / del padre mio? (« »).

INVITO

Oh! Qui nessuno è morto!
Nessuno di noi ha cambiato toletta
e i contadini portano le ghette
di tela, quelle stesse di una volta.
Oh! Qui non si può morire!
Venite chi vuol venire:
suoneremo la nostra zampogna
soffiando nella pelle della capra,
batteremo sul nostro tamburo
la pelle del tenero coniglio.

INVITO è l’ottava e ultima lirica della prima Sezione di E’ FATTO GIORNO, alla quale presta il titolo. Il poeta invita a venire nella sua terra ricca di sapienza arcaica e mitica, dove nessuno è morto e non si può morire.
G.B. Bronzini così commenta in alcuni passi del paragrafo Religione della terra ed esistenza contadina del terzo capitolo del volume L’UNIVERSO CONTADINO E L’IMMAGINARIO POETICO DI ROCCO SCOTELLARO, Bari, Dedalo, 1987, pp.113 – 15:
«Della condizione reale e psicologica dei contadini lucani degli anni quaranta il poeta coglie sociologicamente le più stridenti contraddizioni, le avverte e rappresenta poeticamente, le determina con la parola e l’azione politica. E le fa esplodere. “Gridano al Comune di volere / il tozzo di pane e una giornata / e scarpe e strade e tutto” (E ci mettiamo a maledire insieme), mentre i loro archetipi o modelli mitici rimangono legati al rituale sacro dell’ultimo covone, ripreso nella poesia La prima di agosto:
Dall’ombra dei fichi
si vede come una bandiera
sull’ultima biga.
E non imbianchite le casine
la festa gloriosa dei santi
padri contadini.»

 

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