Sartascinidd e altri riti
La macellazione in casa del porco era un rito che nella mia famiglia non si è mai celebrato; meno male perché sono stato un terribile bambino neofobico e tale sono rimasto a oltre 90 anni, rifiutandomi, per fortuna, ai soli cibi della macellazione casalinga e della cacciagione, esclusa quindi la carne di maiale, che preferisco e trovo che subisca una calunnia dal punto di vista salutista. Non abbiamo mai macellato il maiale in casa, perché mio padre non mangiava grassi animali, lardo e strutto, e preferiva l’olio al burro, quasi bandito dalla nostra tavola. Condividevo e condivido questa scelta dietetica, ma, non macellando il maiale, non facevamo neppure il sanguinaccio, sperando che ce lo regalassero. Mio padre comperava dal macellaio un certo quantitativo di carne per preparare insaccati e una parte del rito si celebrava quindi anche a casa mia col momento culminante du sartascinidd.
Del porco non si butta niente, neppure le setole, si diceva ed era vero. Gli scarpari ne facevano un estremo utilizzo, a cui mi permetto di aggiungere il mio personale ricordo di un venditore di setole di porco a piazza Carità di Napoli.
In una cassetta che portava appesa al collo esponeva una ventina di mazzetti di setole legati con filo di cotone colorato, mai bianco, e reclamava la sua merce con scettico cantellinare bisbigliato: Setole e’ puorc – Setole e’ puorc. Confesso che talvolta mi sono soffermato anche a lungo ad osservare l’andamento di quello inusuale commercio e non ho mai visto nessuno fermarsi a comperare setole. Passavano i mesi e passavano gli anni, piazza Carità era un luogo dove mi capitava di passare spesso e il venditore di setole e’ puorc era sempre al solito posto, con la sua merce esposta e con la sua stanca cantilena.
Le setole di porco, come dicevo, le utilizzavano gli scarpari, e le ho utilizzato anch’io al panchetto di scarparo di mastro Peppe Scherd, che aveva bottega in piazza di fronte al fontanino sotto i ferri, in una bottega bella fresca d’estate. Nelle ore più calde, fatto più o meno il nostro dovere sui libri, ci riunivamo attorno a quel panchetto a litigare su Coppi e Bartali e ci rendevamo utili preparando lo spago impeciato per cucire tomaie e suole delle scarpe. Alle punte dello spago si innestavano due setole di porco, che fungevano da ago per far passare lo spago impeciato nei buchi delle tomaie e delle suole delle scarpe praticati con la suglia.
Suglia è voce dialettale con nobili ascendenze latine. Chi parla bene non dice suglia, bensì lesina, che ha anche altri significati ruotanti attorno alla taccagneria. La voce dialettale suglia deriva dal latino “subula”, contratta in “subla”, con la tipica mutazione nei dialetti meridionali di bl in gli (ad esempio: nebula → nebla → neglia → negghia; in questo caso subula → subla → suglia o in dialetto stretto sugghia ovvero sogghia (o chiusa).
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Tonino non so se ti ricordi, in quella bottega dello scarparo c’era un lavorante che era la nostra enciclopedia calcistica. Egli sapeva a memoria risultati, classifiche e formazioni di tutte le squadre di serie A. Non ricordo il suo nome! Ciao!
Il panchetto di Scerr era la nostra università calcistica e il lavorante che ricordi, a del quale anch’io non ricordo il nome, il Rettore Magnifico.
Antonio, intervengo solo per dire che nel dialetto stiglianese, incomparabilmente duro e aspro, la “suglia” si chiama “assogghi'” con la “o” chiusa. Con la “o” aperta diventa voce del verbo “assògghi'”, sciogliere, slegare, etc.(1^ e 3^ persona dell’indicativo presente, oltre che infinito presente).
Buona giornata, Angelo
Caro Angelo ti ringrazio e mi permetto di notare che la ” a ” è articolo, che va quindi scritta distintamente dal sostantivo. Ho modificato il mio articoletto attenendomi al tuo suggerimento. Buona serata.