Rocco e i suoi “fratelliPensiero meridionalista e poesia in Lucania, Irpinia e Cilento (Scotellaro, Parrella, Trufelli – Stiso, La Penna, Piscopo, Iuliano – Liuccio) – è un libro di iniziativa del Parco Letterario Francesco De Sanctis a diffusione gratuita, una ricerca di cui è parte rilevante una ricostruzione della “geografia” della Letteratura italiana, necessità di cui De Sancitis è uno di primi teorici.

Esso è il primo di quattro volumi dedicati alla poesia engagée meridionale del secondo Novecento, partendo, per una “ricostruzione geografica” della poesia del Sud da tre aree culturalmente, econ0micamente e socialmente simili come la Lucania, L’Irpinia e il Cilento. Questa analogia – si afferma nell’Introduzione – si manifesta anche in una uniformità poetica, che si propone attraverso il concetto  di “geopoetica”, che consiste nell’idea secondo cui ogni forma poetica è condizionata non poco anche dai luoghi, persino di colori e dai climi che un autore ha conosciuto e “vissuto” nel corso della sua esistenza.

Il condivisibile concetto di geopoetica a me pare che possa caricarsi di intonazioni equivoche nella definizione di uniformità poetica; che il clima in cui si vive possa totalmente condizionare e cingere tutti i poeti meridionali in un abbraccio fraterno.

L’Autore della ricerca è Paolo Saggese, docente di materie letterarie – latino e greco -, critico letterario, poeta, scrittore. La ricerca ha la prefazione (Il “nostro” Sud) di Francesco D’Episcopio, docente di Letteratura italiana e Critica letteraria e letterature comparate presso l’Università degli Studi Federico II di Napoli.  

La ricerca affronta la tesi provocatoriamente definita la damanatio memoriae della poesia del Sud, che riguarda la produzione in versi degli autori nati a Sud di Roma; tesi già affermata in questo primo volume e che, si legge, si ripeterà nei successivi volumi. Per curiosità ho effettuato una ricerca nel 17.mo e 18.mo volume (1382 pagine) della enciclopedica Storia della Letteratura Italiana diretta da Enrico Malato, e ho rilevato che tra Scotellaro, Parrella, Trufelli, Stiso, La Penna, Piscopo, Iuliano, Liuccio sono citati solo Scotellaro e La Penna: il solo nome di Scotellaro in due pagine del 18.mo volume e poco più in una successiva pagina (fa eccezione … singolare figura di sindacalista, poi sindaco del suo paese, autore di un libro di poesie (…) che uscì postumo e rappresenta tuttora una delle più intense interpretazioni del mondo meridionale); di La Penna, riguardo alle traduzioni di Quasimodo, è citato il titolo di un suo scritto in nota di una pagina del 17.mo volume.

La voce poetica che si intende far sentire trova in Scotellaro il “fratello maggiore”, al quale – secondo la visione di Saggese, che non condivido in gran parte – si riconnettono i poeti citati nel sottotitolo (i lucani Michele Parrella e Mario Trufelli, gli irpini Pasquale Sileo, Antonio La Penna, Ugo Piscopo e Giuseppe Iuliano e il cilentano Giuseppe Liuccio). Ciò che li accomunerebbe è la prospettiva “civile” della loro poesia, che li lega alla società e ai problemi del proprio tempo. Un valore che si è come smarrito nell’odierna società globalizzata, così lontana dalla forte progettualità della generazione dei poeti e dei letterati ma anche dei politici del secondo dopoguerra (e Scotellaro ne è un esempio), che elaboravano strumenti di approccio e di soluzione di quei problemi che, nel loro insieme, chiamiamo “questione meridionale”.

Ho conosciuto i tre poeti lucani. Sono dello stesso paese di Rocco Scotellaro e di Mario Trufelli. Di Rocco Scotellaro sono stato amico per dieci anni; l’amicizia con Mario Trufelli nacque tra due ragazzi molto giovani e ha compiuto un percorso di 82 anni; di Michele Parrella sono stato compagno nel Convitto Nazionale di Potenza.

Parrella aveva quasi un anno più di me e frequentava una classe di un anno avanti la mia, ma nel convitto facevamo parte della stessa squadra, dormivano in due letti affiancati, mangiavamo allo stesso tavolo, andavamo a passeggio spesso in coppia nella fila dei convittori sotto lo sguardo vigile dell’istitutore.

Nel 1943 il ministro della Pubblica Istruzione, che si chiamava Carlo Alberto Biggini, dispose improvvisamente, con largo anticipo, l’immediata chiusura dell’anno scolastico e tornammo velocemente a casa. Non ricordo come e perché io fossi rimasto in possesso del Vocabolario Italiano di Parrella, lo portai con me a Tricarico pensando di restituirglielo all’inizio del nuovo anno scolastico; Parrella con mezzi di fortuna venne da Laurenzana a Tricarico a riprenderselo, mi spiegò il bisogno di avere quel Vocabolario e la sua incomparabile utilità.

Il nuovo anno scolastico non fu riaperto, alla fine dell’anno facemmo l’esame da privatisti e qualche volta ci siamo rivisti. Mio padre, sottufficiale dei Carabinieri in congedo fu richiamato nei cinque anni di guerra e tra i vari incarichi ebbe quello di Comandante della Stazione dei Carabinieri di Calvello e di Laurenzana, il paese di Parella, di cui il padre era  medico, lo conobbi. Un paio di volte ci siamo rivisti anche a Potenza, dove si era trasferita la sua famiglia, fino alla tragica fine del padre.

La sua politica, le sue tre domande a Togliatti facevano discutere molto, Mazzarone lo apprezzava e me ne parlava.

Per comprendere il mondo poetico di Michele Parrella è fondamentale l’antologia completa curata da Giuseppe Lupo, con prefazione dello stesso Lupo e postfazione di Andrea Di Consoli –  Da quella porta non usciranno mai i vermi.

Dice Di Consoli che l’utopia di Parrella è retroflessa. Non migliorìa del futuro, ma migliorìa del passato – tutto l’oro del mondo non vale un giorno di quel paradiso perduto. Nomina amici che non ci sono più – Vito Riviello e Rocco Falciano – sul nostro sonno vigila una Madonna  naïve dipinta su mattonella, un regalo di Vito Riviello a Titina di cui non sono mai stato geloso.

Il rapporto fraterno tra Scotellaro e Parrella è ben detto nell’incipit della prefazione di Giuseppe Lupo:

« Nel telero Lucania ’61, realizzato da Carlo Levi per rappresentare la Basilicata alla Mostra delle Regioni in occasione del centenario dell’Unità italiana, il volto di Michele Parrella si affaccia in primo piano tra la folla che ascolta Rocco Scotellaro mentre parla ai contadini. Insieme a lui, chiusi in un silenzio misterioso, compaiono le figure di Carlo Muscetta, Umberto Saba, Rocco Mazzarone e dello stesso Levi, di profilo, con il borsalino calato sul capo. A una finestrella in alto, in una posizione di rilievo, fanno capolino Giuseppe Zanardelli, Giustino Fortunato, Guido Dorso e Francesco Saverio Nitti. In questa zona del dipinto, dove sono radunati intellettuali e politici come in una sorte di “nobile castello” dantesco, Parrella recita la parte del giovane in cerca di verità: ha un atteggiamento disincantato, lievemente sorridente e aperto alla speranza che la sua musa, non appena il talento profetico di Scotellaro si sarà spento, possa candidarsi a raccoglierne il testimone.
All’epoca in cui l’autore del Cristo si è fermato a Eboli (1945) progetta e realizza il dipinto, Parrella ha già pubblicato due raccolte di versi – Poesia e pietra di Lucania (1954) e Paisano (1958) – che gli permettono di entrare (unico tra i poeti lucani, a parte Scotellaro) nel paesaggio culturale di Levi e di assistere, da un punto di vista privilegiato, a quel simbolico crocevia di destini. ».

Fratelli Dioscuri Rocco e Michele come nel mito di Castore e Polluce: ma l’un l’altro si sono ceduti metà della propria immortalità.

 

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