NON E’ QUI, E’ RISORTO

Ebbi al Liceo la fortuna di un professore di latino e greco che si era formato alla Scuola Normale di Pisa; non lasciava passare un solo giorno senza parlare di Benedetto Croce, entusiasmarci e infatuarci del grande filosofo; non so se ci insegnò più filosofia che latino e greco. Quando passai agli studi universitari a Napoli mi informai e venni sapere che il filosofo aveva l’abitudine di fare una passeggiata lungo Spaccanapoli alla solita ora con un gruppetto di amici, tra i quali, immancabilmente, c’era mons. Vincenzo Cilento di Stigliano, all’epoca Rettore del Collegio Bianchi; e quella divenne anche la nostra passeggiata, a debita distanza e silenziosa ammirazione, con l’orecchio teso a carpire qualche lacerto della dottissima conversazione.

Il testo per l’esame di Filosofia del Diritto era un libro di Benedetto Croce, Filosofia della Pratica. Verso metà del libro, a conclusione di una interessante questione l’autore pone una domanda, appunto conclusiva, e scrive che non vi sarebbe bisogno di dire qual è la risposta, perché chi non l’avesse intesa farebbe meglio a chiudere il libro, perché non la intenderebbe mai più. Non chiusi il libro.  

Il professore ci aveva anche detto che Croce era un grande scrittore: piano, scorrevole e gradevole da leggere e che in testi di singolare bellezza e intensità presentava se stesso e insegnava a conoscersi. Divenni, pertanto, un lettore di questo Croce non filosofico (?!) e don Benedetto lo scrittore preferito; Rocco Scotellaro, vivente, era inedito, mi incontravo con lui quasi ogni giorno e leggevo anche lui su riviste, giornali o scritti autografi o dattiloscritti.  

Leggo nei miei appunti, privi di citazione bibliografica, Croce riferire la risposta data dal duca di Maddaloni a Salvatore di Giacomo che gli chiedeva come stesse. «Non lo vedi, sto morendo. Ma – aggiunge subito Croce – non è già un lamento che mi esca dal petto ed è invece una delle solite reminiscenze di aneddoti letterari che mi tornano curiosamente alla memoria e mi allegrano». E così conclude: «malinconica e triste che possa sembrare la morte sono troppo filosofo per non vedere chiaramente che il terribile sarebbe se l’uomo non potesse morire mai, chiuso nel carcere che è la vita, ripetere sempre lo stesso ritmo vitale che egli come individuo possiede solo nei confini della sua individualità a cui è assegnato un compito che si esaurisce».

 

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