Settantaquattro anni fa gli italiani, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, furono chiamati a eleggere per la prima volta i loro rappresentanti.
Ai seggi si recarono il 92% degli italiani, quasi 27 milioni di persone e il responso delle urne parlò chiaro: il 48,5% degli Italiani votò per la Democrazia Cristiana.

 I partiti, dopo essersi confrontati e aver scritto insieme la Costituzione, si ritrovarono a sfidarsi per governare la nazione. Nell’epoca in cui i social ancora non esistevano, gli  slogan che riassumevano i loro programmi elettorali venivano affidati ai comizi di piazza e ai manifesti, che nelle settimane precedenti avevano tappezzato tanto i muri delle grandi città che dei piccoli paesi. Era a quelle immagini che, più di tutto, veniva affidato il compito di catturare l’attenzione degli elettori.

Il clima era quello della guerra fredda, e infatti la posta in gioco era alta, oltre che decisiva: si trattava di decidere della collocazione dell’Italia rispetto ai due blocchi contrapposti che facevano riferimento alle due grandi superpotenze. Gli italiani vennero chiamati dunque non solo a decidere a chi affidare il compito di governo, ma contemporaneamente anche a scegliere la posizione del Paese.

Rispetto a una contrapposizione mondiale molto netta, due erano le opzioni: 1) schierarsi sotto l’ombrello degli Stati Uniti 2) schierarsi sotto la sfera di influenza dell’Urss di Stalin.

La campagna elettorale fu dura e segnata dall’incertezza, visto che i sondaggi ancora non esistevano.

Per convincere gli indecisi e i moderati, la Dc coniò slogan entrati nella storia, tra cui quello di Guareschi: “Nel segreto dell’urna Dio ti vede, Stalin no”. A far pendere l’ago della bilancia da una parte, il fatto che, a ridosso del voto, gli Stati Uniti avevano dato il via agli ingenti finanziamenti per la ricostruzione post bellica del piano Marshall.

Le posizioni erano chiare e contrapposte: la Democrazia Cristiana di Alcide De Gasperi da una parte, e il Fronte Popolare dall’altra, costituito dal Psi di Pietro Nenni  e dal Pci di Palmiro Togliatti. Alle urne si presentò il 92% degli elettori (quasi 27 milioni di pesone).

La maggioranza degli italiani preferì non finire nella sfera d’influenza sovietica, decidendo così di affidare il governo e le sorti del Paese alla Dc.

Un compito di grande responsabilità che il partito cattolico – centrista, moderato e con componenti di sinistra sociale che hanno contato molto nell’azione del partito, oltre la lro rappresentanza nmerica – svolse anche per i successivi decenni. Un grandissimo merito della DC, che non le può essere disconosciuto.

La DC ebbe una clamorosa affermazione anche a Tricarico. Era sindaco da due anni il govanissimo Rocco Scotellaro (25 anni), che non esitò a provocare la crisi della sua amministrazione, scegliendo l’ala frontista socialcomunista contro il parere dei suoi grandi amici Manlio Rossi-Doria e Carlo Levi, che spaccò la sua maggioranza vincente nel 1946.

Io stavo per compiere 18 anni, e comunque la maggiore età si raggiungeva a 21 anni. Non votavo e potevo scegliere in silenzio, fare scelte “sentimentali”. Subivo molto l’influenza di Rocco Scotellaro, per il Fronte Popolare era schierato anche Antonio Albanese, non elettore come me: non me la sentii di seguirli. D’altra parte frequentavo l’Azione Cattolica e subivo l’influenza di don Benì Perrone, il quale non sosteneva proprio che un cattolico commetteva peccato a non votare DC, ma, insomma, come cattolico, aveva il dovere di votare per il partito dei cattolici. Un bel pasticcio. Scelsi una strada di mezzo e simpatizzavo silenziosamente per il partito socialdemocratico dell’on. Saragat, che qualche anno dopo verrà eletto Presidente della Repubblica.

Molti anni dopo io e Titina frequentavamo due fine settimana di Incontri del Convento di suore benedettine di Civitella San Paolo, dove mia nipote Rosanna aveva preso i voti di clausura. La Madre Badessa, Madre Francesca, prima di prendere i voti, era stata Presidente della FUCI Femminile nel periodo in cui Presidente del ramo maschile erano stati Moro e Andreotti. Il Convento, secondo la regola di San Benedetto, si dava il dovere dell’ospitalità ed era aiutato da Oblati e Oblate, che io e Titina non siamo stati, non era tra i nostri progetti. Gli Oblati e le Oblate di quel periodo erano in gran parte esponenti, se non di primissimo piano, del Clima del Quarantotto, tra cui la vedova dell’on. Aldo Moro e una loro carissima intima amica, Giovanna, nonché la sorella di Vittorio Bachelet, che avevo conosciuto, assassinato dalle Brigate Rosse nel 1980.

Giovanna ricordava il 18 aprile, riunite a casa Moro erano impazzite di gioia. Moro si aggirava con un fascio di giornali sotto il braccio, si fermava, dava uno sguardo, s’incupiva: Come faremo a gestire tutti questi voti? Bene o male, molto più bene che male, seppero gestirli per decenni. Moro fu ammazzato e fu la fine anche della politica.

 

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