Non avrò visto solo io la scena del bellissimo, elegantissimo, ricchissimo pianista di colore che compie una tournée accolto con tutti gli onori e i riguardi. Dopo una esibizione, deve fare pipì e si reca al bagno, un cameriere lo raggiunge e rispettosamente (sì: rispettosamente) gli dice che lui la pipì deve farla in una latrina di lamiera nel cortile.
Chissà perché, vedendo questa scena, mi è venuta in mente l’espressione “incidente stendhaliano”. Ricordo di che si tratta, ma non so dove ho letto la storiella, che racconta un viaggio di Wolfgang Goëthe, che non ho trovato per quante ricerche digitali abbia fatte, e figuriamoci che pretesa avevo a voler trovare la traduzione in italiano.

 La storiella è una poesia è intitolata Il diario e racconta un viaggio  fatto nel 1810, alla quale è premesso un motto latino di Tibullo: Sed iam quam gaudia adirem, / Admonuit dominae deseruitque Venus.
Non traduco, con uno sforzo non è difficile tradurlo e mi mordo le dita: se ho annotato quello che sto dicendo, perché non ho annotato tutto?
Goëthe si ferma a una locanda per cenare e passare la notte; scende dalla carrozza e per prima cosa chiede al trattore: c’è un gabinetto? il trattore gli risponde: sì, nel cortile; Goëthe non vede niente e domanda: dove? Il trattore risponde: dovunque.
Durante la cena adocchia una bella cameriera, le fa l’occhiolino. Nel cuore della notte va a bussare alla porta della cameriera, lei apre e lì accade qualcosa, quella tale cosa raccontata anche da Tibullo nei due versi prima riportati.

Non è colpa mia se qualcuno non ha capito. Ma non c’è niente da capire: dubito, infatti, che quella tal cosa possa ancora capitare per la stessa ragione al giorno d’oggi; per altre ragioni è forse più frequente.

 

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