Il locale di via Santa Teresa di Tricarico è stato definito taverna dal FAI, oppure il FAI l’ha fatto conoscere. Mi dispiace per il FAI e mi scuso umilmente con Sabrina Lauria: il termine taverna non solo non mi piace, ma lo ritengo anche sbagliato se con esso s’intende l’antico, medievale locale; a taverna preferirei cantina.

Se cerco il significato di taverna negli scritti di letteratura e nei dizionari non posso fare a meno di notare che poeti, scrittori e letterati, nonché linguisti ne parlano come di una cosa che non hanno mai visto nemmeno col cannocchiale. A cominciare da padre Dante, che nel canto XXII dell’Inferno dice tra i versi 14 e 15 che nella Chiesa si sta con i santi, nella taverna con i ghiottoni. A Dante si può concedere la scusante di riferire un detto popolare, citato anche da poeti comici come Cecco Angiolieri. Possiamo comunque assumere i versi del sommo Poeta come inizio della falsa credenza che nelle taverne si mangiasse a crepapelle, che fossero posto per ghiottoni.

Se apriamo un buon vocabolario troviamo la calunniosa aggiunta a taverna di osteria di basso grado frequentata da gente poco raccomandabile; dico definizione calunniosa, perché le taverne erano frequentate da carrettieri, gente che si assoggettavano a disumane fatiche e si fermavano nella taverne per il ricovero degli animali, loro mangiucchiavano qualcosa che s’erano portata appresso (pane e frittata o peperoni fritti), e si assoggettavano a dormire per terra nella stalla dove erano ricoverati gli animali, tra topi grossi come gatti danzanti loro attorno; certamente erano gente poco raccomandabile i carrettieri, ma per i luigini.

Carlo Levi, nei primi due mesi di confino a Grassano aveva invece capito cosa fosse davvero una taverna. Nel Cristo si è fermato a Eboli loda la taverna Prisco di Grassano, dove alloggiava, che disponeva di alcune per l’alloggio delle persone, scrivendo che i carrettieri che la mattina si recavano a Tricarico la sera tornavano a Grassano per non correre il rischio di passare la notte nell’unica taverna di quella sede vescovile. L’espressione ‘sede vescovile’ è una metonimia al posto di Tricarico scritto poco prima, dette invece la stura a una feroce polemica antilevista precedente il levismo, fu impossibile a far capire che Levi non aveva scritto che il bel palazzo vescovile di Tricarico era una taverna.

 Oggi il termine taverna è stato riadottato senza più alcun valore spregiativo per indicare, insieme al diminutivo tavernetta, ristoranti, trattorie e simili, a volte di lusso, arredati in stile rustico. Se la taverna di via Santa Teresa è diventata come in questo senso riadottato, sarebbe tutt’altra cosa rispetto alla “cantina” della tradizione popolare. Niente di male, ma è sempre bene sapere di che cosa si sta parlando; e io non lo so.

Non so che c’è a Tricarico in via Santa Teresa. Se c’è un ristorante arredato in stile rustico, non mi interessa. E mi è molto difficile dire che cosa vorrei che ci fosse. Ci penso e forse vedremo.

A Bologna, in un primo tempo, non essendo stata ancora allestita una mensa presso la sede regionale, un gruppetto di quattro o cinque molto spesso andavamo a mangiare dal Salernitano, dove si fermavano a mangiare i camionisti, perché dove mangiano i camionisti si mangia bene. E dal Salernitano si mangiava veramente bene, squisiti piatti rustici della cucina meridionale, che il Salernitano ci faceva pagare quattro soldi. Del gruppo faceva parte Lanfranco Turci, futuro presidente della regione, che era assessore alla sanità. Il Salernitano, che l’ufficiale sanitario di Bologna voleva chiudere date le non perfette condizioni igieniche del locale e delle stoviglie,  rimaneva aperto perché Turci ci metteva la buona parola.

Una volta chiesi al Salernitano quale fosse il suo paese di origine:
Atrani -, e io: Ah, il paese di Fifina!
Fifina era una rinomatissima prostituta della Costiera amalfitana. Al porto di Amalfi con caratteri enormi era scritto VIVA FIFINA lungo tutto il molo.
Il Salernitano mi chiese: – L’avete conosciuta Fifina? (Al Sud non si usava il lei, ci si dava il voi) – No, l’ho vista. Non potevo conoscerla, ad Amalfi ero in convitto –
– Peccato – disse il Salernitano.

Ecco, per intenderci io direi che Il Salernitano era una cantina. E come cantina racconterò qualcosa del locale di via Santa Teresa come è fisso nella mia immaginazione, perché io sono un vero lucano, e cioè, perché non ci siano dubbi, sono un asino che ragiona.

(Continua, forse)

 

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