Io e Benito Lauria (Amedeo il vero nome anagrafico) siamo stati due fratelli siamesi: imbranati antidiluviani, zuppa e pan bagnato. Ci chiamavano i santi medici. Io, per il vero, ero un po’ meno imbranato: sapevo andare in bicicletta, Benito no, lo portavo in canna; giocavo al pallone, mi sono esibito come bravo portiere su vari campi, e Benito non ha mai dato un calcio a un pallone. Per il resto – salvo il rendimento scolastico – ECG piatto.
Fummo ompagni di banco in quarta e quinta ginnasiale. Benito prendeva 8 in ginnastica, perché il preside si chiamava Lauria. Al liceo ci separammo, io lasciai Potenza, diciamo per motivi familiari.

Conseguita la maturità classica partimmo alla conquista del mondo, puntando su Milano.
Andare a Milano non era come andare a Napoli. Decidemmo di dividere il viaggio in alcune tappe: Amalfi, Napoli e Roma, prima del grande salto. Uno dei motivi della decisione fu quello di salutare gli amici, quasi che stessimo emigrando per le lontane Americhe. Cosa che l’aspetto del nostro bagaglio rendeva verosimile.

A Milano giungemmo con un giorno di anticipo. Il direttore dell’Istituto, l’Augustinianum dell’Università cattolica, ci fece osservare, senza calcare troppo la mano, che il nostro arrivo anticipato creava qualche problema: – Eh! Ma noi veniamo dalla Basilicata – ci giustificammo, come a dire che, a tanta distanza, non sarebbe stato facile calcolare con precisione il momento dell’arrivo. Insomma, meglio in anticipo e che in ritardo.
– Basilicata? – disse con marcato accento milanese una ragazza venuta a informarsi di noi – Non so, che cos’è? Non l’ho mai sentita nominare! – Benito si infuriò e strapazzò con gli occhi fuori dalle orbite la saccente milanesina emunctae naris direbbe Orazio (Satire, 1,4,8), cu mucc a lu nas, volgarizziamo ancora meglio noi eredi del grande venosino.

Partecipavamo a un concorso dell’Università cattolica per un posto gratuito (vitto e alloggio) del collegio Augustinianum della Cattolica. Benito vinse il concorso, io no.
 Il giorno dopo, puntuali, giunsero gli altri. A pranzo sedemmo a un tavolo con un giovane sacerdote cinese e tre ragazzi. Con questi avevamo scelto lo stesso tavolo data la comune provenienza dal profondo sud.
Dato tempo al tempo, questi compagni di tavola erano destinati a far parte di futuri governi, uno, di un futuro governo, sarebbe diventato nientemeno presidente del consiglio. Benito è stato sindaco di Tricarico, io consigliere comunale di Ferrara. Si chiamavano: Ciriaco De Mita, Gerardo Bianco e Riccardo Misasi. Solo De Mita avrebbe fatto il concorso, gli altri due avrebbero frequentato l’Università e alloggiato all’Augustinianum a pagamento.

De Mita aveva ventuno anni, due più di noi. Ci sarebbe da raccontare, e tornerebbe a suo onore, perché iniziasse l’università in ritardo. L’anno prima aveva tentato il concorso e non lo vinse. Aveva già vent’anni, e decise di ripeterlo, perdendo un altro anno.
Era molto alto, magro come un chiodo e aveva capelli che sembravano poggiati provvisoriamente sul cranio, sul punto di volar via. Un colpo di tosse, un refolo di vento, un niente. Benito, che è stato suo compagno di corso, e non era un presuntuoso ma difficilmente era disposto a riconoscere che un altro fosse più bravo di lui, mi diceva che De Mita era il più capace dell’Augustinianum e della Facoltà.

Quando Benito fu eletto sindaco di Tricarico, e io ero segretario della sezione D.C., invitammo De Mita a tenere un comizio per la campagna elettorale. Era ben noto nella ristretta cerchia delle giovani teste d’uovo della sinistra di Base della D.C. e tra gli amici, ma per il resto era del tutto sconosciuto, mancavano sei anni alla sua prima elezione a deputato. Quando andai in caserma, secondo le disposizioni di pubblica sicurezza del tempo, ad annunciare il comizio e a chiedere l’autorizzazione per l’uso della piazza, il maresciallo mi disse: – Ma voi potete chiamare a fare comizi ministri e le più illustri personalità della politica, e invitate uno che si chiama Ciriàaaaco! –

De Mita è stato una delle menti più brillanti della politica italiana e ha avuto intuizioni geniali per dare una svolta a un declino della politica, che si è rivelato inarrestabile. La sua pronuncia, delizia degli imitatori, è stata riabilitata dal linguista Tullio De Mauro, che nel libro di ricordi «Parole di giorni lontani» (Il Mulino) racconta al Corriere del Mezzogiorno: «I ben parlanti, come mio padreDe Mita (evidenziazione mia), dicono certe parole come nazione o pozione o paziente con una pronunzia che impressiona gli incompetenti e viene confusa con le sonorizzazioni indebite in cui possono cadere i napoletani». Sul suo linguaggio politico è stata presentata una tesi di laurea che ha meritato un 110 e lode.

Dopo averlo lodato a dritta e a manca, come sentivo il dovere di fare, devo amaramente concludere che a un certo momento il suo cervello si è ingrippato e ha smesso di ragionare di politica, come nessun altro aveva saputo ragionare prima. Non ha capito quando la musica era finita e l’orchestra si era ritirata. E’ voluto rimanere caparbiamente sul podio, appannando il suo glorioso passato ed è morto a 94 anni in carica di Sindaco della sua Nusco. Ma se a 90 anni, perso il potere, prendeva valanghe di voti, doveva ben valere il nostro Ciriaco, il più capace dell’Augustinianum e dell’Università cattolica, di cui fu assistente di diritto privato.

     Riccardo Misasi era il più giovane e mostrava una invincibile idiosincrasia non dico per ogni forma di ginnastica o di cura dimagrante, bensì per ogni minimo movimento che giudicasse inutile. A diciassette anni aveva preso la maturità con la media del 10. Come cavolo aveva fatto? Era il più giovane ed è morto ventidue anni fa. Percorreva una carriera precoce e brillante, visse un calvario segnato di calunnie e d’ingratitudine, un percorso doloroso di cui fu sancita l’ingiustizia. Di lui lascio il ricordo di un libro pubblicato nel 1998 sulla storia del comune d’Orvieto (lui calabrese) dal titolo “Storia di un libero comune. Dall’esperienza antica di Orvieto provocazioni e pensieri per oggi” (Rubettino editore). Un bel libro ben informato e scritto e intelligentemente ragionato, dove c’è la zampata di un ragazzo che a diciassette anni supera l’esame di maturità con la media del 10.

 

4 Responses to RICORDI PER LA MORTE DI DE MITA: BENITO LAURIA, CIRIACO DE MITA E RICCARDO MISASI

  1. domenico langerano ha detto:

    Bei ricordi e ben raccontati, a me del tutto sconosciuti e che meriterebbero che tu, caro Antonio, continuassi a tirar fuori, raccontarli da par tuo e, di tanto in tanto, pubblicarli.
    Un sincero e caro abbraccio
    Mimmo

  2. cesare monaco ha detto:

    Caro Tonino,non finisci mai di stupirmi con i vividi ricordi dei tuoi tempi vissutti non invano,abitati da un fiume di personaggi che hanno fatto la storia. Ah com’è diversa questa Italia di oggi abitata da giovani per lo più ignoranti allevati sui social diseducativi. Abbiamo criticato i politici di un tempo, ma erano dei giganti in confonto ai lillipuziani di oggi. Non farci mancare i tuoi scritti. Un affettuoso abbraccio.Cesare

  3. Giuseppe ha detto:

    È sempre un piacere leggere i tuoi racconti. Sei un fiume di informazioni e spero che molto giovani trovano il tempo di leggere ciò che tu scrivi e racconti in modo che possono riflettere sul loro futuro. Un caro saluto

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