Il Sole 24 Ore Domenica 13 settembre 2020

IL RICORDO /1. L’ORIGINALE APPROCCIO DI DAVERIO ALLA STORIA E LA GIOIOSA CAPACITÀ DI RACCONTARLA HANNO FORNITO SPESSO INTERPRETAZIONI INATTESE E INEDITE, UTILI ANCHE AGLI STORICI DI PROFESSIONE

Quel Napoleone di Philippe

Luigi Mascilli Migliorini

La mia privatissima risposta, o forse dovrei dire meglio, il mio privatissimo rifugio alla crisi della storia, si chiamava Philippe Daverio. Nei dubbi che attanagliano oggi tanti interpreti di questo sapere, nella puntuale constatazione del poco credito che la storia sembra avere nelle nuove (e spesso anche nelle vecchie) generazioni, nella frustrazione che nasce dai poco riusciti tentativi di rinvigorire una nobile e stanca disciplina, l’incontro con Philippe Daverio rassicurava in pochi minuti sull’esistenza e la ragione di esistere di ciò che chiamiamo storia.

Non che lui fosse uno storico di professione, e tanto meno uno storico dell’arte nel senso comune di questa espressione. Egli, cioè, non apparteneva a quella dimensione propriamente storicista che conduceva, e talvolta conduce ancora, a intendere nell’opera d’arte una semplice chiave di lettura della società o del potere. Al contrario, la sua era una continua, consapevole affermazione della forma e dei suoi diritti. L’autonomia del linguaggio formale non si trasformava, però, nella rivendicazione di una autonomia concettuale della dimensione formale. I vigorosi anticorpi storici che vivevano originalmente in lui gli consentivano, mi verrebbe di dire, un fascinoso gioco di prestigio a doppio senso in cui, da un lato, la forma disciplinava la storia e, dall’altro, la storia disciplinava la forma. La chiave di volta di questo serissimo illusionismo stava, probabilmente, per un verso nella sua colta attenzione per la materialità, materialità fisica anche e soprattutto, del manufatto formale, e per altro verso nella sua spiccata vocazione al dettaglio. Nella storia, dunque, egli entrava per la porta principale (talvolta sfondava la porta) dell’homo faber, dell’esercizio umano che si applica ogni volta alla invenzione, o se si preferisce, alla costruzione della forma e che nel particolare di un insieme talvolta anche imponente – un edificio, una statua, un mobile – mostra i caratteri più evidenti del processo, intellettuale e manuale insieme senza distinzione e senza gerarchia, da cui scaturisce l’oggetto artistico.

Era, dunque, una gioia per uno storico rispecchiarsi in un linguaggio come quello di Philippe Daverio: simile al suo per il piacere di raccontare – senza categorie preconfezionate, senza teleologismi – un frammento della storia degli individui e delle società, del loro incessante lavorìo per risolvere problemi e inventarne di nuovi. Ritrovare il gusto di un particolare che si faceva, ambiziosamente, universale, e di un universale che si piegava, umilmente, a manifestarsi nel particolare. Allo storico questa gioia regalava la scoperta dello sguardo. Vedere una forma non voleva dire impadronirsi banalmente di una fonte, più appariscente e brillante rispetto a una carta d’archivio, per sorreggere il proprio ragionamento. Voleva dire imparare a costruire il proprio ragionamento a partire da ciò che i manufatti materiali, le opere d’arte se si vuole, guardandole come sapeva guardarle Philippe, raccontano di sé e, quindi, del proprio tempo.

Spesso il discorso tra noi cadeva, fatalmente, su Napoleone. A lui, quindi, devo la progressiva comprensione del carattere borghese di quell’uomo leggendario e del mondo che si costruiva, nascostamente, tra le pieghe di roboanti richiami all’eroismo degli antichi. Philippe mi aveva accompagnato per questa strada mostrandomi le trattenute dimensioni delle dimore che i napoleonidi, anche quando diventavano sovrani, sceglievano per le loro vite private. Marlia, ad esempio, per la sorella Elisa, Portici per il cognato Murat, che lì, insieme alla moglie Carolina, aveva dato vita alla prima moda dei bagni di mare. Le stanze, in quei luoghi, mai troppo grandi, ricordo di quelle quasi anguste, ad Ajaccio, in cui avevano vissuto da bambini. Mi aveva aiutato a capire senza pregiudizi i forti legami che univano i membri della famiglia (L’onore dei Bonaparte aveva voluto intitolare una nostra conversazione diventata una delle memorabili puntate del suo Passepartout), legami dietro i quali si celavano storie di periferie isolane, ma anche futuri trionfi di familiarità borghesi. Nel Napoleone di Brera mi aveva invitato non a guardare solo il modello canoviano di una eroicità classica, ma la nudità che aveva infastidito un uomo che così anticipava le pruderie dei decenni a venire. Napoleone profeta del Biedermeier, insomma, piuttosto che erede di Cesare e di Alessandro.

Nei giorni del Covid l’ultima lezione di storia. Il buon umore – mi spiegava Philippe – è l’esito puntuale di ogni grande disastro. La Peste nera ha permesso di abbandonare in Europa le estreme tetraggini del gotico e aprire la strada alla grazia del Rinascimento. Dalla peste del Seicento il buon umore degli scampati regala la civetteria del Rococò. L’età del jazz scioglie, tra fiumi di whisky e giovani donne dai capelli e dalle gonne troppo corte, il gelo di un primo conflitto mondiale. Dal secondo è il buon umore di grandi ricostruzioni che viene in aiuto e ci risolleva. Parlava ed era facile, invitante, prendere mentalmente nota delle infinite piste di ricerca e giudizio storico che si aprivano davanti. Del torto nascosto nelle sue parole, di un’assenza che non permetterà più quel buon umore, allora entrambi non sapevamo.

 

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