Il libro di Normann Lewis (v. L’eruzione del Vesuvio) non c’entra – o centra poco – col ritorno di Togliatti in Italia. Il titolo del libro qui indica il luogo e il tempo del ritorno del capo dei comunisti italiani dopo diciotto anni di esilio. Ma del ritorno di Togliatti proprio nei giorni dell’eruzione ne parla un altro libro.

La sera del 27 marzo 1944 –  una sera di tregenda con la cenere che cadeva come se nevicasse e si era depositata per alcuni centimetri – Palmiro Togliatti, capo dei comunisti, con un lungo periplo di più di un mese Mosca-Baku-Il Cairo, Algeri – si presenta alla Federazione comunista napoletana. Togliatti era partito da Mosca il 18 febbraio e il suo arrivo fu anticipato dalla grande novità della ripresa delle relazioni diplomatiche tra l’Unione Sovietica e il governo Badoglio, residente a Brindisi, che fu annunciata il 14 marzo. Per gli anglo-americani è una cocente sconfitta diplomatica che, oltre tutto, conferisce allo Stato italiano una personalità di diritto internazionale autonoma, anche al di là dei limiti angusti contemplati dall’ armistizio. Già durante il viaggio di ritorno Togliatti ne aveva ribadito, in una intervista, i termini essenziali: “La politica dei comunisti italiani è una politica di unità nazionale nella lotta per la liberazione e la rinascita del paese…”. Ad avallare una strategia maturata nei duri anni moscoviti, viene di rincalzo – il 30 marzo – un articolo della ‘ Izvestija’, uno dei quotidiani di più antica fondazione in Russia, tra i più antichi, autorevoli e diffusi,  nel quale, con tono ufficiale e solenne, si sollecitava una rapida democratizzazione del governo Badoglio “con l’ ingresso delle forze di sinistra antifasciste”.

Alla sua partenza da Mosca, Palmiro Togliatti alias Mario Correnti, alias Ercole Ercoli, preceduto dalla fama di rivoluzionario inflessibile e uomo dottissimo, rilasciò la seguente confessione, che ne svela l’intellettuale civetteria: «Secondo il compagno Vyšinskij tutti aspettano  a Salerno l’arrivo di Togliatti. E se capitasse a me quello che avvenne a Lucia Mondella al suo arrivo a Bergamo? Tutti l’aspettavano e l’immaginavano molto bella, ma quando giunse a destinazione la folla fu alquanto delusa, vi fu persino chi la trovò bruttina».

Perché tutti aspettavano l’arrivo di Togliatti proprio a Salerno? Conviene ricordare che a Salerno, dopo Brindisi, aveva sede il governo italiano con a capo il maresciallo Badoglio, che l’Unione Sovietica per prima aveva riconosciuto.
Se l’amministrazione era stata trasferita dagli Alleati al governo Badoglio, esso era ignorato e avversato dai politici e posto sotto la ferrea sorveglianza della Commissione alleata di controllo. Ccircolavano scellini, sterline, dollari e amlire (le ricordo le amlire!) dall’oscillante e mai chiaro potere d’acquisto. Del governo Badoglio, che era a Brindisi e in seguito si traferì a Salerno, facevano parte militari e tecnici. Ai partiti politici italiani, che intanto si erano costituiti, non passava neppure per l’anticamera del cervello l’idea di far parte di un governo se prima non fosse stata risolta la questione istituzionale e il re non avesse abdicato. Il 28-29 gennaio 1944 ebbe luogo a Bari un grande congresso dei partiti antifascisti, che domandò l’immediata abdicazione del re e la convocazione di un’assemblea costituente, da eleggersi appena finita la guerra. C’era addirittura chi pretendeva l’abdicazione di Vittorio Emanuele e del figlio Umberto, e l’affidamento delle prerogative reali al figlio di Umberto Vittorio Emanuele sotto la reggenza di una commissione presieduta da Badoglio.

Il ritorno di Togliatti segnò una svolta politica sconvolgente, passata alla storia come «svolta di Salerno». Il Vesuvio eruttò e contemporaneamente scoppiò la bomba Ercoli, sconvolgente e impressionante come l’eruzione. I due eventi sono ancora più uniti, perché Togliatti, oltre a far scoppiare la bomba, ha lasciato un racconto dell’eruzione, di cui fu diretto osservatore.

La prima sorpresa della bomba Ercoli – si è già detto – fu l’improvviso e inaspettato riconoscimento formale del governo Badoglio da parte dell’Unione Sovietica. Gli angloamericani furono presi alla sprovvista e si affrettarono a riconoscere a loro volta il governo Badoglio, dando inizio al giuoco del migliore offerente.
La seconda sorpresa fu una bomba più sconvolgente dell’eruzione vulcanica. Togliatti sostenne che fosse necessario rinviare la questione monarchica al dopoguerra e che occorresse costituire immediatamente un governo politico con l’appoggio dei partiti democratici. Detto in altri e più chiari termini, Togliatti accettava di collaborare con la monarchia e il maresciallo Badoglio: sostenendo che per il momento occorresse un governo di unità nazionale, lasciando in sospeso la questione monarchica, col formale mantenimento della titolarità del trono da parte di Vittorio Emanuele III, ma col trasferimento al figlio Umberto, quale Luogotenente Generale del Regno, trasferimento che si sarebbe concretizzato non immediatamente, ma con l’ingresso degli Alleati nella Roma liberata. Un’assemblea costituente avrebbe infine disegnato il nuovo assetto istituzionale dell’Italia nel dopoguerra.

Di fronte a tale cambiamento, anche i partiti più tenacemente repubblicani furono costretti a disarmare e il 21 aprile 1944, sempre sotto la presidenza del maresciallo Badoglio, si costituì il primo governo politico di partiti che l’Italia abbia conosciuto dalla caduta del fascismo il 25 luglio 1943. Il governo giurò il 22 aprile, il giuramento avvenne nelle mani del re a villa Episcopio di Ravello. Di questo governo fecero parte sei partiti (DC. PCI, PSIUP (già PSI), PLI, PDL (partito democratico del lavoro), PdA (partito d’azione). Solo il partito repubblicano rimase fermo sulla sua pregiudiziale antimonarchica. Togliatti fu vicepresidente. Vi parteciparono eminenti personalità (ne cito uno per tuti: Benedetto Croce); due furono i ministri lucani: il socialista Attilio Di Napoli e l’ex nittiano Francesco Cerabona, che nel governo rappresentava il PDL.

Roma fu liberata il 4 giugno 1944. Era una domenica. Lunedì 5 giugno uscita di scena del re Vittorio Emanuele, che si ritira delegando i poteri di Luogotenente Generale del Regno al figlio Umberto, che li eserciterà fino al 1946. Fu ultimo re d’Italia dal 9 maggio 1946 al 18 giugno dello stesso anno. Soluzione costituzionale, che toglieva di mezzo il bisogno dell’abdicazione ed estrometteva totalmente il re dalla trattazione degli affari. Martedì 6 giugno dimissioni del governo Badoglio e il sabato l’annunzio di un nuovo governo di unità nazionale presieduto da Ivanoe Bonomi, già presidente del consiglio dei ministri in epoca prefascista e comprensivo di personalità del Comitato di liberazione romano. I ministeri senza portafoglio, politicamente i più significativi, furono assegnati a Giuseppe Saragat, Alcide De Gasperi, Palmiro Togliatti, Alberto Cianca, Meuccio Ruini, Carlo Sforza e Benedetto Croce.

I ministeri erano rimasti dov’erano, ossia a Salerno, giacché così si convenne per ragioni di sicurezza, almeno sino al ritorno di Roma alla tranquillità.
Ai membri del governo e familiari fu data villa Guariglia, un palazzo barocco in vista del mare, a Raito, frazione di Vietri, che per la circostanza ebbe un’impronta di casa albergo. A ognuno le camere da letto necessarie, il refettorio era in comune.
Dalle verande pendevano robe stese ad asciugare. L’angustia dei tempi ha una sua fisicità anche in questo luogo, che pure è luogo popolato da governanti: il vento muove mutandoni pieni di rattoppi, camicie con rammendi sopra rammendi.
Al refettorio la tavola dei ministri e dei familiari è unica. Se la cucina passa polpette, il cameriere  alza le ditta, per indicare quante ne spettano a ognuno, due o tre.
Meglio e più abbondantemente si mangiava alla mensa ufficiali della Guardia di Finanza, la cui caserma era vicino a Villa Guariglia. A questa mensa era ovviamente ammesso con i suoi e ospiti il ministro delle Finanze Stefano Siglienti,  zio di Enrico Berlinguer, (lo zio Fanu). Enrico Berlinguer faceva parte della compagnia, in quanto figlio di Mario, Alto commissario per l’epurazione e nipote del ministro. Uno degli ospiti che volentieri accettava l’invito di Siglenti era Benedetto Croce, genio di appetito robusto: curvo su piatti succulenti, si tingeva i baffi di sugo. Cicci, sette anni, figlia del ministro, toccava il braccio del cugino Enrico: «Ma guarda questo come mangia!» Il cugino sorrideva e le sussurrava: «Zitta, non lo sai che è l’uomo più intelligente del mondo!».

 L’11 aprile del 1961 Togliatti sentì ancora il bisogno di rendere , al teatro Comunale di Bologna una testimonianza sul governo di Salerno, con un accenno all’eruzione del Vesuvio.
Riporto alcuni illuminanti passi iniziali.
«Del governo di Salerno, di solito, o non si parla, o si parla con un certo tono di altezzosità e sufficienza, come se si trattasse esclusivamente di un episodio di lotta e concorrenza di partiti che si può anche dimenticare, nel corso del quale i diversi partiti si sarebbero mossi per motivi deteriori, senza vedere quale cosa grande e nuova fu questo governo, momento di decisiva importanza per l’organizzazione della resistenza al fascismo e di quella lotta antifascista che si dovette condurre dal 1943 fino alla insurrezione del 1945 per liberare l’Italia dal regime delle « camicie nere » e dallo straniero.
Naturalmente la situazione era allora politicamente molto confusa. La creazione stessa del governo di Salerno fu un momento di una lotta politica di portata tanto nazionale quanto internazionale, intricata, difficile; però, sarebbe un grave errore se, per motivi secondari, si dimenticasse quello che ha rappresentato la costituzione di quel governo, che fu il primo, formato dopo il crollo del fascismo, nel quale entrarono i rappresentanti delle grandi organizzazioni popolari antifasciste, di tutti i partiti antifascisti che allora esistevano sul territorio nazionale. Una svolta, quindi, dalla ribellione, dalla tardiva ribellione monarchica e amministrativa del 25 luglio, alla vera lotta di liberazione, cioè all’inizio di quel processo che doveva portarci a rinnovare gli ordinamenti democratici e ad aprire la strada di un rinnovamento generale della vita nazionale…».
In quel discorso dell’11 aprile 1961 vi fu anche un accenno all’eruzione del Vesuvio: «Ho detto che la situazione politica nella quale si costituí il governo di Salerno era molto confusa, difficile. Inoltre la lotta politica si svolgeva su uno sfondo di effettiva catastrofe della vita nazionale. Di questo posso dare ampia testimonianza. Io arrivai a Napoli il 27 marzo del 1944. […] Era uno spettacolo che chiamare apocalittico forse è poco. Vi era anche un quadro di eventi naturali che impres­sionava. Era in corso una eruzione del Vesuvio e tutte le vie di Napoli, tutte le strade delle campagne adiacenti erano coperte da uno strato di cenere di cinque-dieci centimetri. Non si poteva camminare, non si poteva andare in macchina, senza essere stretti alla gola da questa polvere che soffocava. Ma, soprattutto, quello che impressionava era la città. Sapevo che a Napoli vi era stata la Resistenza, vi era stata una lotta eroica, vi era stata l’insurrezione del popolo napoletano che aveva contribuito alla cacciata dei tedeschi dalla grande capitale italiana del Mezzogiorno. Eppure, arrivando a Napoli nel marzo del 1944, tre-quattro mesi dopo i fatti di Napoli [Qui Togliatti allude alle gloriose Quattro Giornate di Napoli], lo spettacolo era degradante: dappertutto miseria, dappertutto corruzione, disgregazione, sfacelo …»

E qui lascio la parola a Pietro Gargano, giornalista del quotidiano napoletano Il Mattino, senza che, mio malgrado, sia in grado di citare con precisione la fonte. «Ercoli, l’uomo che veniva da Mosca, Palmiro Togliatti, il capo leggendario che nessuno conosceva, si presentò alla porta della cadente federazione napoletana. Nessuno lo aveva mai visto tra i dirigenti napoletani, e nessuno lo aspettava così d’improvviso. Nessuno immaginava soprattutto le scelte che i suoi primi cento giorni italiani preparavano, dopo diciotto anni di esilio e di lunga familiarità coi capi superstiti del bolscevismo della vecchia Internazionale (e con Stalin, il mito in terra). Vestiva una giacca di tweed marrone, un maglione di lana, e coi suoi cinquantun anni portati male e la pipa in mano, apparve a Maurizio Valenzi come uno dei tanti ufficiali inglesi che nella Napoli dei falò per le strade e delle segnorine giravano in cerca di fortuna. Napoli era allora la capitale di un’Italia virtuale divisa dalla guerra, e viveva i suoi grandi momenti di miseria e di orgoglio, poverissima e ferita, ma insieme vivissima di fermenti e di speranze, e di ricordi di antica capitale. L’attesa era dei comunisti – divisi tra eretici e ortodossi; intransigenti e fautori di una via democratica, nessuno sapendo dove sarebbe stata l’eresia e dove la virtù -; ma aspettavano le prime mosse di Togliatti anche gli altri antifascisti, e Croce e il suo gruppo, politici e politicanti, intellettuali, questuanti vari, ex-fascisti timorosi. E sembra, leggendo questa cronaca del giorno per giorno di un protagonista di allora, che, come il sasso caduto nello stagno, Togliatti, sbarcando a Napoli, mettesse in moto tutto, e tutti quanti, uniti e divisi, mettesse in una marcia prefigurante l’Italia di poi. E che lui, Togliatti, fosse mosso, nelle svolte di quei cento giorni, dalla visione di quella Napoli capitale: immagine, sintesi, storia e cronaca, specchio e spaccato di un’Italia sconosciuta e vera.»

Bisogna ora che dica chi è Maurizio Valenzi, autore del libro che apre questo capitolo di memorie. Pittore, senatore e parlamentare europeo, si ritiene sia stato stato il sindaco di Napoli forse più popolare del dopoguerra. Io l’ho conosciuto in una manifestazione “ufficiale” al Maschio Angioino” e, a dire il vero, fui deluso.
Nei primi anni Trenta, a Tunisi, iniziò l’attività politica antifascista, che lo porterà, tra il Nordafrica e Parigi, prigionia e campi di concentramento, a diventare membro del CLN e dirigente del Pci, e, dal 1944, esponente di primo piano della vita culturale e politica napoletana.

E ora racconto il ritorno di Togliati, parafrasando molto Valenzi e cercando di dare un ordine all’esposizione. Sera napoletana del 27 marzo 1944. All’imbrunire il coprifuoco svuota le strade, i lampioni restano spenti, fragile scudo di buio contro le incursioni degli aerei tedeschi. Il 14 marzo le bombe naziste hanno fatto subito 3oo morti e cumuli di rovine.

Nelle stanze finalmente silenziose della federazione comunista di San Potito sono rimasti in tre, Salvatore Cacciapuoti, segretario della federazione, Clemente Maglietta e Maurizio Valenzi. All’improvviso: due colpi decisi alla porta. Un’occhiata all’orologio e i tre si mettono all’erta. È un’ora insolita per le visite, hanno qualche avversario, la città è infestata di bande pronte ad usare le armi per pochi spiccioli o per una gratuita violenza. Cacciapuoti va alla porta. Maglietta e Valenzi sentono il cigolio del battente e un vago mormorio. Decifrano una frase appena: «È troppo tardi, la federazione è chiusa, tornate domani». Scorrono i secondi. Che cosa sta accadendo? Li blocca un urlo di Cacciapuoti: «È lui, è arrivato. Correte, Ercoli è qui».

Palmiro Togliatti, il compagno Ercoli, è pallido e smagrito, più vecchio e stanco dei suoi 51 anni. Ha gli occhiali, con un’antiquata montatura di metallo, in mano una pipa di radica, un’aria trasandata e un po’ straniera. Così  si presenta alla federazione comunista di Napoli il capo del partito comunista italiano che torna dopo diciotto anni di esilio.
Togliatti è accompagnato dall’avvocato Adriano Reale, fratello di Eugenio. Eugenio è comunista, dopo la Liberazione fu nominato ambasciatore a Varsavia. Adriano milita nel Partito d’Azione, non ha mai aderito al Pci. Con una solennità in cui è evidente l’ironia, dice: «Signori, permettete che vi presenti il segretario del vostro partito».
Togliatti, giunto a Napoli, aveva cercato invano Eugenio Reale, infine era approdato allo studio legale, a Materdei, del fratello Adriano, che lo accompagnò alla sede della federazione comunista.

 

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