Per Dante non ci fu solo Beatrice. Esce oggi 4 febbraio per il Mulino di Bologna l’ultimo lavoro di Marco Santagata, scomparso nello scorso novembre: LE DONNE DI DANTE .
In giornata comprerò il libro. Intanto riporto su Rabatana la presentazione scritta da Paolo Di Stefano, giornalista e scrittore, inviato speciale del Corriere della Sera, pubblicata sul quotidiano milanese il 1° febbraio scorso.

È vero che quando pensiamo alle donne di Dante, il primo nome che viene in mente è quello di Beatrice, ovvero Bice Portinari. Ma si rimane un po’ frastornati leggendo, nell’ultimo libro di Marco Santagata, che le figure femminili che hanno contato di più nella vita travagliata di Dante, non del poeta ma dell’uomo Dante, sono state Tana e Gemma. Perché sono state loro, la sorella maggiore e la moglie, con le rispettive famiglie, a soccorrerlo nei momenti più difficili. Non è questa la sola considerazione che sorprende avvicinandosi a Le donne di Dante (il Mulino), il saggio che ha occupato gli ultimi mesi dello studioso, filologo, critico e scrittore, scomparso nello scorso novembre dopo aver dedicato lunghi anni a Petrarca, Leopardi, Boiardo, Boccaccio e ovviamente a Dante. Il suo contributo dantesco è stato su tre piani: in primo luogo quello dello storico ed esegeta (con la direzione delle opere nei Meridiani), poi quello del notevole divulgatore (per esempio con una guida del poema e con una vita di Dante), infine quello del narratore che ha aggiunto agli elementi documentari una dimensione di ipotesi e immaginazione. Ne venne fuori, nel 2015, Come donna innamorata (Guanda), un romanzo sui tormenti d’amore per Bice, che morirà venticinquenne nel 1290, segnando il destino del poeta (e della nostra letteratura).

Il libro di Santagata (magnificamente illustrato con immagini che vanno dalle miniature trecentesche fino alle opere novecentesche di Dalì e oltre) si dispone cronologicamente in tre macronuclei tematici: una prima parte sulle donne di famiglia (famiglia d’origine e famiglia acquisita con il matrimonio, ovvero quella dei Donati); una seconda sulle donne amate (Bice su tutte, ma anche le donne schermo, la Pietosa, Pietra e la Donna Gentile); una terza parte dove campeggiano le figure-personaggi della Commedia, a cominciare da Francesca e da Pia.

Dunque, una vita di Dante alla luce delle donne. Considerando che di quasi tutte si sa ben poco, ma questa è l’ombra che oscura l’intera biografia dantesca, così piena di zone misteriose. A partire dalla madre Bella, forse discendente della famiglia ghibellina degli Abati e forse figlia del giudice Durante, per finire con la figlia Antonia, divenuta suor Beatrice (in omaggio al padre), monaca a Ravenna. Di «forse» è tempestata l’infanzia del poeta, ma si sa almeno che con la morte precoce di Bella il padre si sposa con Lapa, da cui avrà Francesco, unico fratellastro che si aggiunge a Tana, al terzogenito Dante e a una secondogenita di cui non si sa nulla, se non che ebbe un figlio, Andrea, molto somigliante allo zio sin dalla postura ingobbita.

Si diceva di Tana (Gaetana), il cui matrimonio con Lapo Riccomanni, ricco mercante e ottimo partito, gioverà a Dante, prima e dopo l’esilio, quale rete protettiva, esattamente come la famiglia Donati di Gemma: il cui contributo sarà finanziario (allo scopo di assecondare la sua malcelata ambizione di vivere di rendita), ma anche morale per la gestione dei beni e la custodia delle carte in assenza forzata del detentore (tra l’altro la conservazione dei canti della Commedia avviati a Firenze prima dell’esilio). Il racconto di Santagata è quello che abbiamo sempre ammirato: una narrazione pacata e forte, capace di selezionare e di gerarchizzare i dati valorizzando i dettagli che contano anche a vantaggio della curiosità del lettore. Per esempio, laddove si spiegano, con lieve ironia, le dinamiche amorose e familiari duecentesche, comprese le questioni di interesse politico-patrimoniale che prevalgono nettamente sulle esigenze affettive. Oppure nel confronto tra la Firenze del trisavolo Cacciaguida e quella di Dante, la cui serenità sociale e il cui equilibrio familiare, secondo il poeta, erano stati irrimediabilmente sconvolti dal commercio e dalla finanza crescente.

Insomma, si imparano un sacco di cose. Un altro esempio è la malattia. Quella di Dante è la «dolorosa infermitade» di cui parla nella Vita nova e che lo porta allo smarrimento e alla farneticazione, come gli accadde il giorno della nascita di Beatrice e il giorno della morte della stessa, e come accadrà più volte al pellegrino nell’aldilà («e caddi come corpo morto cade»). La malattia ci riconduce ancora una volta al ruolo centrale di Tana, la sorella maggiore, che sarebbe la «donna pietosa e di novella etate» della famosa canzone, il cui pianto (e spavento) richiama un nugolo di donne al capezzale del bambino in delirio. Santagata fa notare come la presenza di un familiare in poesia, tanto più in posizione iniziale, rappresenti una novità assoluta che risponde a diverse strategie. Se più che lecito vedere in quelle crisi manifestazioni epilettiche, lo studioso tiene a precisare che gli episodi psicosomatici, vieppiù legati all’apparizione dell’amata, sono tutt’altra cosa rispetto alla convinzione scientifica, diffusa allora, dell’amore come patologia, e sono altresì estranei alla tradizionale dinamica passione-malattia presente nella poesia. Questa «oppilazione» veniva considerata nel Medioevo una forma di possessione demoniaca: si trattava di un eccesso di umori capace di provocare l’ostruzione dei ventricoli del cervello (di fronte alla donna amata Dante si sente come un condannato davanti al patibolo). Come tale era sì il marchio di una condanna, ma d’altra parte il male si presenta a Dante (e Dante lo presenta) soprattutto come il segno capovolto di una predestinazione: quasi un dono dall’alto.

In coincidenza con le figure femminili, si rivelano alcuni punti sensibili e innovativi (quando non eterodossi e scandalosi) della poetica dantesca e di una visione ad ampio raggio tutt’altro che limitata all’area amorosa. Il più vistoso e ricorrente è il colore politico di cui spesso Dante riveste le «sue» donne più o meno esplicitamente. Il caso estremo è Cunizza da Romano — la sorella di Ezzelino signore di Treviso ed esponente della più famosa famiglia ghibellina veneta — scelta strumentalmente per farne una paladina di Cangrande, «astro nascente» del ghibellinismo: collocata nel cielo di Venere, con il discorrere politico di Cunizza diventa per il poeta un’autodichiarazione di fede partitica. Vengono anche ricordate le motivazioni ideologiche che sottostanno ad altre figure di donne: Piccarda Donati, la Pia e la stessa Francesca da Rimini, il cui racconto cela tra le righe chiare componenti anti-malatestiane. E se il limite di Cunizza-personaggio, come ammette Santagata, è di essere eletta dal poeta a sua portavoce, le altre donne, pur con le loro coloriture ideologiche, mantengono ugualmente un notevole spessore evocativo. Le pagine dedicate a Francesca da Rimini sono una finissima interpretazione dei valori cortesi, degli intrecci ambivalenti tra amore e lussuria, tra buona fede e malizia (per esempio nella lettura del famoso libro «galeotto»), della confusione tra nobiltà d’animo e ambizione di status sociale, tra corteggiamento e seduzione, con l’irradiazione della micidiale triade adulterio-omicidio-incesto.

Altre donne amplificano la loro qualità poetica nella sottrazione o evanescenza misteriosa se non indecifrabile (sono i casi di Matelda e di Gentucca). A ben guardare, la stessa Beatrice che compare in quell’autobiografia poetica e sentimentale che è la Vita nova (autobiografia fittizia, una sorta di autofiction) è preliminarmente più assenza che autentica presenza, se è vero che i componimenti scritti per lei prima della morte sono non più di quattro o cinque, pari per numero a quelli dedicati alla rivale, la cosiddetta Donna Pietosa.

Destinata a diventare la Gentile (filosofia) del Convivio, la Donna Pietosa si configura, dopo la morte di Beatrice, come l’oggetto di una doppia verità. L’innamoramento si compie tramite l’inconsueto gioco di sguardi compassionevoli che la donna lancia da una finestra al poeta in preda al lutto: e verrà reso pubblico in città grazie alla circolazione delle poesie che lo celebreranno. Durerà finché Beatrice fanciulla appare in visione a Dante inducendolo al pentimento per averla tradita. Restano labili tracce, comunque, le tracce poetiche di Beatrice in vita, che non le assegnano una netta preminenza neanche rispetto a semplici dedicatarie come Fioretta, Lisetta, Violetta. Il riscatto non tarderà e Beatrice diventerà mito con la glorificazione gratuita post mortem, sconvolgente novità tutta dantesca.

Il petrarchista Santagata non manca di tracciare un conturbante parallelo tra il «manichino senza corpo» che è Beatrice (della quale si descrivono solo i vestiti) e Laura, «personaggio pieno, sfaccettato»: dotato com’è di capelli, trecce, occhi belli, bel fianco, mani belle, denti avorio, angelico seno, persino bel piede. Fisicità parcellizzata, ma fisicità a tutti gli effetti. C’è anche Laura nel corredo iconografico del libro. Ma le immagini permettono al lettore di intraprendere il proprio personale viaggio visivo nel paesaggio umano (reale e fantastico) dantesco, scegliendo i propri incontri con le figure che l’hanno più affascinato nel racconto di Santagata, lasciandosi sorprendere dai volti, dalle espressioni, dai gesti e dalle fisionomie. Ed è un gran bel viaggiare.

 

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