Samuele Hanau  è personaggio che nell’invenzione del confino di ebrei in Lucania e, secondo questa mia lettura, a Tricarico, ha un ruolo molto importante.

Del nome dato al personaggio mi arrogo la paternità. Un giorno Mario Trufelli mi telefonò: – Ho in mente una grande bella storia e ho bisogno che tu, che vivi in una città dalla gloriosa e tragica storia ebraica, mi suggerisca un nome prettamente ebraico. – Samuele Hanau, con l’acca davanti – fu il mio suggerimento, che Mario, evidentemente, apprezzò. Confido che non abbia voluto restituirmi il favore dando il mio cognome a un altro personaggio, il prof. Fedele Martino insegnante di italiano e latino in un liceo di Napoli; rimasto vedovo e oramai in pensione, da un paio d’anni viveva nella casa del suo paese, un palazzetto che si affacciava a grandangolo sulla piazza. Il palazzetto, tornando a Tricarico, era stato adibito ad albergo dal nonno di Mario, don Michele Valinotti.  e quindi, dal 2 aprile 1941, fu abitato per circa un decennio dalla mia famiglia. Il prof. Martino ha anche lui un ruolo importante, a cui assolve con sussiego laicista e arroganza intellettuale, rendendosi talvolta moderatamente ridicolo. Se non si è capito, lo dico: il prof. Martino è il mio opposto, non mi è simpatico, non mi è piaciuto che gli sia stato dato il mio nome. Di lui se ne riparlerà.

Samuele Hanau era un avvocato di Firenze e aveva appena compiuto quarant’anni. Non era sposato, la donna amata l’aveva lasciato perché non accettava i suoi “inutili” sacrifici ed era rimasto solo. La sua famiglia, di professionisti, era emigrata in America per sfuggire al rigore delle leggi razziste fasciste. Samuele aveva svolto intensa attività antifascista, entrando in contatto con clandestini fuoriusciti in Francia ed era stato arrestato, tenuto in carcere un paio di mesi e inviato al confino perché fu sorpreso mentre stava affiggendo manifesti contro il capo del governo. Lo studio legale fu chiuso.

La storia degli ebrei confinati a Tricarico inizia col suicidio di Samuele. Era il giorno di Sant’Antonio del 1939. Nessun gallo aveva ancora annunciato il sorgere del sole. Era l’aurora: quell’intervallo di tempo che segue la notte fonda e precede il sorgere del sole. Tra le due e le tre, come accerterà l’ufficiale sanitario, Samuele Hanau si è impiccato a una corda attaccata alla ringhiera, lasciandosi scivolare lungo le scale della pensione Caterina, di cui è l’unico ospite. Ospite obbligato, perché Samuele Hanau è confinato politico e, per di più, ebreo. L’essere ebreo rende più precaria la sua condizione, perché il regime fascista aveva cominciato l’anno precedente ad emanare quell’insieme di provvedimenti legislativi e amministrativi, rivolti prevalentemente, ma non solo, contro le persone di religione ebraica, che Benito Mussolini in persona annunciò il 18 settembre 1938 dal balcone del Municipio di Trieste in occasione della sua visita alla città.

La piazza fu svegliata dai latrati rabbiosi di cani randagi, che al primo abbaiare di un cane erano accorsi e si erano raccolti. Un abbaiare molesto, un frastuono che si concentrò davanti al portoncino della «Pensione Caterina» sul quale un cane aveva cominciato a infierire nell’inutile tentativo di aprirlo con zampate frenetiche che lasciavano segni come ferite. La canea si placò solo quando il portoncino si aprì all’improvviso e apparve Caterina, la proprietaria sconvolta che sembrava cercare una via di scampo. Gridava parole incomprensibili. Il fruttivendolo, che proprio allora stava aprendo il negozio, colse un nome: «Samuele». Tra le lacrime Caterina riuscì a dire qualcosa di comprensibile: «Samuele … si è impiccato sulla scala».

La mattina dopo, da Firenze, giunsero direttamente al cimitero due collaboratori dello studio legale di cui Samuele era titolare. Un uomo e una donna: marito e moglie o colleghi o semplicemente amici: la gente incuriosita se lo chiedeva. Non più collaboratori di Samuele, se lo fossero stati, perché lo studio era stato chiuso. Samuele diceva a Caterina che gli era rimasta una sola causa: la sua, che era una causa persa.

Siamo al doloroso momento della sepoltura di un uomo, della sua storia, dei suoi silenzi.

Don Armando (che si individua spirato a don Peppe Uricchio, detto Pizzilone, canonico della cattedrale di Tricarico, di fede politica nittiana, storico direttore didattico delle Scuole elementari di Tricarico, terrore di generazioni di ragazzi tricaricesi. Aveva fama di grande latinista. Figlio di un fabbro ferraio, mestiere che esercitava il fratello, con bottega in viale Regina Margherita, sotto il Seminario, dopo il muraglione del Palazzo ducale) ne tratteggiò la figura con la vividezza di chi dipinge un quadro dal vero.

I due forestieri rimasero colpiti dalla testimonianza così appassionata. L’uomo si presentò al prete: «Non siamo parenti di Samuele ma colleghi; eravamo colleghi e amici carissimi naturalmente, sia io che Marcella» e indicò la donna, poco più che trentenne. «Siamo avvocati, ma lo studio era intestato a Samuele, uno dei più stimati professionisti della città. La sua famiglia non vive più in Italia, i tempi si sono fatti difficili e solo da pochi mesi ha potuto raggiungere gli Stati Uniti. Samuele ha sofferto molto per questa decisione dei genitori, specie perché suo fratello si stava facendo strada nel mondo della musica. A parte gli amici, non a caso i carabinieri hanno informato me e Marcella della sua scomparsa, in Italia Samuele era rimasto solo, e forse anche questo ha pesato sulla sua disperata risoluzione. lo mi chiamo Luigi Aleardi, viviamo a Firenze con Marcella Giannini, che non è mia moglie ma, come vi dicevo, una collega. Dall’inizio dell’anno siamo stati costretti a chiudere lo studio legale. Per ordini superiori».

Don Armando fece la domanda che i due forse si aspettavano: «Samuele era un ebreo, ormai lo sappiamo tutti in paese. Ma voi … ?» «Se fossimo ebrei, probabilmente non saremmo qui oggi» fu la risposta lapidaria e amara».

L’uomo continuò: «Poche volte ho visto tanta luce illuminare un cimitero. Il cielo vasto e queste povere tombe si fanno momenti solenni nella loro semplicità. Sto parlando a un sacerdote che certo aveva capito che Samuele era rispettoso della storia degli altri e orgoglioso della sua origine. Senza ostentare la sua fede, ha sempre avuto nel cuore le preghiere che aveva ascoltato e imparato dalla madre». Don Armando con prudenti gesti della mano gli fece capire di abbassare il tono della voce. Ma lui, senza neppure un attimo di esitazione: «Viviamo con una spia a ogni porta e a ogni angolo di strada, gli ebrei soprattutto sono accusati di avere molto potere e molto denaro. Samuele, che veniva da una famiglia di professionisti, non aveva per sua scelta né potere né danaro. Noi che lo frequentavamo lo abbiamo sostenuto durante tutti questi mesi di segregazione, eravamo sempre in ansia per le sue stravaganze, chiamiamo così le intemperanze di chi ha un profondo spirito di ribellione. Samuele aveva frequenti contatti clandestini con fuoriusciti in Francia, persone molto in vista. La notte in cui fu arrestato stava affiggendo manifesti in cui sfoga va tutto il sarcasmo toscano di cui era capace contro il capo del governo. Lo tennero in carcere per quasi due mesi, poi fu mandato al confino qui, a una distanza che per noi sembrava infinita. Un alto dirigente del fascio aveva addirittura chiesto di cancellare il suo nome dai registri anagrafici di Firenze, quasi non fosse mai nato. Ma quella richiesta sciagurata per fortuna non ebbe seguito».

Marcella, dal suo angolo accanto alla camera mortuaria, il viso tra le mani: «Ha messo fine alla sua rivoluzione, al suo sogno. Ha messo fine anche al sogno della donna amata che non accettò i suoi inutili eroismi – così li chiamava – e si dichiarò libera. Un’altra dolorosa sconfitta per Samuele». «Ma che cimitero allegro, Samuele almeno qui riposerà in pace!» ».
«Anche il suicidio è una sconfitta» replicò don Armando senza l’aria consolatoria che hanno i preti.

 

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