«Violinista ad Auschwitz» è il libro di un piccolo ma combattivo ebreo greco, che deve la sua salvezza ad un violino e alla musica di Mozart. Narra il cammino da Salonicco a Gerusalemme, passando per l’inferno di Birkenau-Auschwitz negli anni bui dell’imbarbarimento dell’uomo e del silenzio di Dio. E’ un’autobiografia che è un lungo qaddish, una delle più antiche preghiere ebraiche, una preghiera perpetua per tutti coloro la cui vita è stata spezzata nell’ingranaggio assurdo e fatale della Shoah e una risposta a chi ancora oggi si sforza di normalizzare la storia attraverso il velo edulcorante dell’oblio.

Il testo che segue, dovuto alla penna di Piero Stefani, è stato trasmesso il 27 gennaio 2016 nella rubrica «Oggi, la storia» della rete 2 della Radio Svizzera Italiana.
Violinista ad Auschwitz
       Wolfgang Amadeus Mozart nacque il 27 gennaio del 1756; Giuseppe Verdi morì il 27 gennaio del 1901. La stessa data abbraccia il venire alla luce e il congedo dall’esistenza terrena di due musicisti tanto grandi da essere ancora vivi negli orecchi, nella mente e nel cuore di un gran numero di persone. Nel corso delle loro vite, breve per l’uno, lunga per l’altro, i due musicisti hanno composto opere che è pura verità classificare immortali. Ci sarebbero tutti gli estremi per giudicare questa data predisposta a diventare giorno internazionale della musica. Le cose, come si sa, non stanno così. Oggi la memoria va in una direzione differente.
       Nell’universo “altro” del Lager ci fu, in effetti, spazio anche per la musica. Quando le squadre dei deportati, dopo estenuanti appelli, uscivano dal campo per recarsi al lavoro, l’orchestrina suonava. Chi nella vita di prima era un musicista si trovava ora a esibirsi in una condizione mai immaginata negli anni del conservatorio. Da giovane aveva sognato sale da concerto e applausi, ora si trovava invece  all’addiaccio, costretto a mettere il suo amato strumento al servizio di una spietata macchina di morte. Era così; ma qualche crepa nel sistema avvenne anche allora.
       In un suo libro intitolato Violinista ad Auschwitz Jacques Stroumsa scrive: «Quando una SS ascolta della musica, soprattutto se è musica che ama in modo particolare, curiosamente comincia a sembrare un essere umano. Non è forse ciò che è capitato a me quando suonavo da solo, nell’angolo della baracca, il famoso Concerto in La maggiore di Mozart, e una SS mi fece scivolare una sigaretta nella tasca dell’uniforme, dicendomi: “Weitermachen” (continua)?». Ascoltare oggi il concerto K. 219 di Mozart potrebbe diventare perciò un simbolo.  Quella musica si presenterebbe infatti come segno di una speranza di cui, ai nostri giorni, tutti abbiamo ancora bisogno:  confidare che, persino nel cuore della barbarie, si annidi qualche traccia, sia pur lieve, di umanità.

 

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