Da un anno, un anno e mezzo uno stato infiammatorio generale del mio corpo ha cambiato la mia vita. Non so dire come; l’unica cosa che mi sento dire è: in peggio, molto in peggio, sto male. Mi sentivo in imbarazzo quando Titina mi chiedeva di farle capire che cosa sentissi, che cosa mi facesse male e io non sapevo che rispondere, perché l’infiammazione» non ha sintomi evidenti.

Ho fatto ricerche su internet per spiegare a me stesso, non a Titina, che di spiegazioni non ha bisogno. Ho imparato che un immunologo professore emerito dell’Università di Bologna, studioso dell’invecchiamento umano e delle basi delle longevità, negli anni 90 ha scoperto la presenza di uno stato di infiammazione cronica, subclinica e sterile (in assenza di infezioni evidenti) che caratterizza l’anziano. Tale condizione è stata da lui concettualizzata nel 2000 come uno dei meccanismi di invecchiamento dell’uomo con il termine di «inflammaging», composto di «inflammation» e «aging» (vecchiaia). Questo meccanismo di invecchiamento da luogo a uno stato infiammatorio cronico “di basso profilo”. Inflammaging e non, giustamente, infiammazione. Le infiammazioni sono reazioni del sistema immunitario e guariscono. La inflammaging è uno  stupido atto di presunzione: è una reazione contro natura del sistema immunitario alla morte. 

Potrei anche concordare con la definizione, ma un conto è soffrire una infiammazione di “alto profilo” per un periodo limitato su una piccola parte del corpo, altro soffrire una infiammazione di “basso profilo” da un anno, un anno e mezzo con la prospettiva di accompagnamento fino alla fine. E vorrei aggiungere che la sindrome di infiammazione cronica (l’inflammaging) esiste e, col tempo, è sempre più pervasiva.

Non sono malinconico, non sono depresso, vivo una vita felice con Titina e so, senza angosce, che la vita finisce. Vorrei solo sapere cosa dire a chi mi chiede come sto, cosa mi sento.

Mi sono messo a riflettere, a pensare, a scavare nella memoria. Ho ricordato che Leonardo Sciascia morì improvvisamente, ma gli ultime mesi della sua vita furono drammatici. Sapevo che stava male e ricordo la sorpresa, al risveglio in un albergo di Roma, nel sentire la notizia alla radio. Sciascia aveva un mieloma multiplo, malattia che, a volerla parzialmente e imprecisamente descrivere con linguaggio tecnico, sviluppa “catene leggere”. Doveva soffrire dolori atroci alle ossa e da qualche parte, con l’ironia di cui solo lui era capace, parlò delle sue “catene leggere”.

Ci sono cose che l’ironia o la satira aiuta a capire o solo con l’ironia e la satira si possono spiegare. La sindrome dell’infiammazione cronica, la inflammaging, è certamente una di queste cose e io voglio rileggere come Sciascia ironizza sulle sue “catene leggere”. Se l’ha scritto – e l’ha scritto! -, io l’ho letta circa 30 anni fa, c’è nei suoi libri. Sono 33 i libri e i librini di Sciascia, pubblicati da lui o riproposti in edizioni posteriori, che ho e ho letto. Non avrò tempo e modo di rileggerli tutti, ma intanto sto scoprendo il piacere di rileggere Sciascia. Scelgo le letture mirando all’obiettivo delle «catene leggere».

Ho in mano «Cruciverba», in un’edizione riproposta di fabulae, un libro di 476 pagine «comparso nel 1983»; «conferma l’innata vocazione di Sciascia alla fabula»; sono 36 saggi e una nota; «questi saggi sono sotterraneamente mossi da un ritmo, da un montaggio, da una sapienza archetetturale che soli appartengono all’arte del raccontare».

Di questi saggi ho riletto «La medicalizzazione della vita», dieci pagine favolose, alla quale segue un saggio intitolato «Del rileggere», che inizia con una citazione di Montaigne: «Non faccio niente senza gioia». L’ho letto prima della medicalizzazione della vita. In quarta  pagina di copertina leggo: «Il fatto è che la storia sempre e continuamente è stata fatta e rifatta e che il passato offre sempre dei materiali da incorporare nel presente» e penso che metterò un  po’ da parte l’obiettivo delle catene leggere.

La medicalizzazione della vita racconta che l’essere vissuto – – stando alla misura dantesca – per più di metà della vita in un paese siciliano piuttosto chiuso e remoto, aveva consentito a Sciascia di vedere un mutamento «des attitudes de l’homne occidental devant la mort» che altrove si era svolto in un arco di tempo addirittura secolare. All’incirca nello stesso periodo io sono vissuto in tre paesi lucani altrettanto chiusi e remoti, e ricordo, come ricorda Sciascia, il passaggio dal lume a petrolio alla luce elettrica, dalla carrozza all’automobile, dal grammofono alla radio, dalla neve, che d’estate era portata alle «neviere», al ghiaccio fabbricato in paese, dal film muto a quello parlato, e altro ancora.
Questi ricordi sono per Sciascia come una introduzione al racconto del passaggio da un’idea della morte all’interdetto sulla morte. Dell’interdetto sulla morte, della interdizione della morte, è parte dominante di quella  medicalizzazione della vita, sulla quale Sciascia,  ricordando e riflettendo, vuole intrattenersi.  
«Negli anni della mia infanzia, nel paese di contadini e zolfatari in cui vivevo – scrive – il «chiamare il medico» era in corrispondenza col «chiamare il prete». Il prete si chiamava per far sì che il morituro si mettesse in regola con l’aldilà; il medico perché i familiari restassero in regola coi conoscenti, coi vicini; insomma, con la società. Che non si dicesse, imputando alla famiglia disaffezione e insieme tirchieria: «non gli hanno nemmeno chiamato il medico».

Ho fatto la scansione della medicalizzazione della vita e l’ho archiviata tra i Documenti del mio computer. La manderei a chi me la chiedesse.

 

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