Ho già accennato o lasciato intendere che nei primissimi anni del mio secondo decennio di vita, ero Balilla, mi aiutarono a formare una visione totalitaria e antidemocratica della società i racconti calunniosi che ascoltavo sul conto del deputato Materi di Grassano (se ne parlava come se fosse uno stato uno solo, ma in realtà erano stati due, nonno e nipote).

Nell’estate del 1943 sentii parlare di un altro Materi, Luigi, come di un gran puttaniere pure di Grassano, che aveva condotto la sua vita tra la Grancìa San Demetrio di Brindisi di Montagna e Napoli, la Francia e l’Inghilterra, le due Potenze demoplutocratiche con cui eravamo in guerra. Luigi Materi era morto da una ventina di anni.

Si raccontava di straordinarie ricchezze, di latifondi acquisiti con gli imbrogli della politica. Con gli imbrogli della politica Francesco Paolo Materi si sarebbe impossessato anche della Grancìa di Brindisi di Montagna, dove il figlio Luigi, che preferì non darsi alla politica ma vivere di rendita, passava le estati spassandola con le contadine. Quando io ero bambino ai vertici della scala sociale c’erano ancora i grandi proprietari fondiari che non avevano bisogno di lavorare; il lavoro sporcava.

Mio padre, sottoufficiale dei Carabinieri richiamato, era stato nominato comandante del posto fisso di Brindisi di Montagna per il controllo della ferrovia. Eravamo in guerra, le linee ferroviarie erano controllate metro per metro, ventiquattro ore su ventiquattro; a tale scopo nei caselli ferroviari e nelle stazioni furono istituiti posti di blocco fissi di militari e carabinieri; il comandante del posto fisso stabiliva i turni di guardia e le modalità del controllo e faceva la guerra nel modo più noioso che fosse immaginabile. Il posto fisso a cui era stato assegnato mio padre era collocato proprio alla stazione di Brindisi di Montagna e ciò rendeva il servizio meno noioso, data la possibilità di chiacchierare col personale della stazione, che svolgevano un compito non meno noioso.

Non ricordo ciò che sentii raccontare sul conto di Luigi Materi ed  è meglio, perché si trattava di maldicenze eccitate da invidia e fantasia erotica.

Nell’estate del 1943, appunto, andai alla stazione di Brindisi Montagna per fare compagnia a mio padre. La guerra aveva presa una brutta piega, gli Alleati erano sbarcati in Sicilia e Mussolini fu arrestato.

Ho conosciuto Luigi Materi come scrittore leggendo la Storia e il Disegno storico della Letteratura Lucana di Giovanni Caserta, che ne parla ampiamente.

Riferendo molto succintamente, il prof Caserta scrive che modo di essere e di sentire la vita di Luigi Materi è tutto in un curioso libro – dedicato alla cosmesi femminile e in parte maschile – in cui, a supremo valore, è assunta la bellezza, che sola dà senso all’esistere. Fu dunque un esteta ed un dandy, in una città, Napoli, in cui, per altro verso e in stridente contrasto, si ammucchiavano scene di miseria e squallore e confluivano affamate orde di emigranti. Come ogni esteta, anche Luigi Materi fu uomo di molte letture, spazianti da Verlaine a D’Annunzio, da Baudelaire a Kierkegaard, da De Musset a Daudet, da Tolstoi a Balzac ed era buon conoscitore della lingua francese. Ma, come ogni esteta, sentì anche la provvisorietà e caducità della bellezza. In contrapposizione al languore della città e all’ipocrisia del bel mondo, perciò, sempre avvertì, come rifugio e antidoto, e come luogo d’oblio, la campagna istintiva e rude, autentica e selvaggia. Di questo contrasto erano testimonianza già le prime opere del Materi:  Il matrimonio di Marcello, giovane precocemente “invecchiato”, che, stanco e avvilito dalla città e da amori estenuanti, si rifugia in una lontana campagna di famiglia, ove pensa di guarire.

Nelle sue opere scorrono scene di violenza e sangue, quasi sempre connesse al sesso. La campagna è scelta dal protagonista per guarire dalle pene d’amore. Ma tutto è inutile, perché lo sbocco è il suicidio.

 Il meglio di Luigi Materi, tuttavia, è nel romanzo postumo  L’ultima canzone-Il romanzo della Grancìa. La campagna che vive nel cuore del Materi si riconosce finalmente nella Grancìa di San Demetrio.  Il romanzo racconta la storia di un amore, cominciato due anni prima a Napoli, tra una diciassettenne, friulana, profuga di guerra, e un grande amatore, Paolo Alderisi, quarantaquattrenne, nobile, robusto ed elegante nella persona, ma già consapevole dell’irrimediabile declino verso la senescenza. Per salvare il suo amore, che sa essere l’ultimo, l’inguaribile don Giovanni decide di relegarsi, mentre intorno infuria la guerra, nella foresta della Grancìa, in una pace apparente, che presto appare fittizia e falsa, inerzia e tedio. Non vi si rassegna la giovane amante, che un giorno decide di tornare alla vita; all’uomo, invece, non resta che osservarne la partenza dalla finestra del suo “castello”. 
Materi è lontano da ogni tensione politica e valutazione sociologica. La grande guerra, per esempio, non lo esalta, sicché egli non si arruola e non va a combattere come il suo D’Annunzio. La grande guerra, più realisticamente, rimane sempre e solo una “immane tragedia”, emblema della vita nel suo fatale concludersi come disfacimento. Si colgono, perciò, motivazioni e riferimenti letterari, che vanno ben oltre Napoli. Essi arrivano alla Roma di D’Annunzio (del Piacere in particolare), alla Trieste di Svevo e, ancor più in là, alla Parigi di Proust e alla Londra di Oscar Wilde. L’ultima canzone, peraltro – conclude il prof. Caserta – per essere il più sofferto e il più autentico tra i romanzi del Materi, è anche il meglio che, poeticamente, egli abbia prodotto, degno di una adeguata rivalutazione, che porti a collocarlo fra i prodotti più interessanti del primo Novecento italiano.

 

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